Cinder Well; Holland Baroque; Xylouris White [Dischi '23 #8]
Rumorismi, barocco, melanconia lancinante e come ho ritrovato il senso per le magliette dei gruppi
Bachs Königin — Holland Baroque (PentaTone Classics, 2023)
Ho già detto di questo ensemble cameristico nederlandese a proposito dell’affascinante disco a tema mistico Minne, assieme al polacco Bastarda Trio (in una maniera effettivamente fuori luogo; che posso dire, sto facendomi le ossa). Come accennai allora si tratta di un complesso estremamente interessante, attivo da inizio decennio scorso e capeggiato da Judith and Tineke Steenbrink —rispettivamente al violino e agli strumenti a tasti—, la cui proposta è quella di un approccio sperimentale al repertorio barocco, che ne sfrutta l’intrinseca trascrivibilità ed è teso a svelarne le potenzialità in contesti sorprendenti: solo tra i lavori più recenti, oltre naturalmente a Minne, ricordiamo Silk Baroque con Wu Wei (a base di trascrizioni per strumentazione tradizionale cinese, o all’inverso, riarrangiamenti baroccheggianti di tradizionali) e Telemann Polonoise (che prende le mosse dalle danze polacche trascritte a suo tempo da Telemann per rileggerne il repertorio). Checché se ne possa pensare, il risultato piace al pubblico: nei limiti concessi al mercato della musica colta, i dischi dell’Holland Baroque si vendono in genere molto bene; e non si può che riconoscere un gusto notevolissimo nel portare avanti operazioni così ardite, che arrivano sempre come qualcosa di moderno ma in modo sottile, suggerito, in ogni caso rispettoso, di ben altra pasta rispetto a certe innominabili “ricomposizioni”, e capaci di fare intendere anche a un deciso non-intenditore come me quale grande consapevolezza del materiale di partenza c’è dietro.
In quest’ultima uscita abbiamo una stranezza simile eppur diversa: l’idea è che, se Johann Sebastian Bach aveva notoriamente trascritto per organo dei concerti di suoi colleghi, ben si può tentare di trascrivere per ensemble delle sue composizioni per organo. Si parte con due sonate, in do minore e in sol maggiore, di cui sono stati scelti dei passaggi per convertirli in concerti grossi, in una maniera che scorre effettivamente molto liscia e non sembra spostarci dall’epoca del Maestro di uno iota; man mano si osa di più, fra trascrizioni di passacaglie e di corali (come Meine Seele erhebt den Herren, BWV 64) che presto rimandano a cose più avanti, evidenti uscite da ciò che Bach in persona avrebbe eventualmente fatto. Se possibile, è un buon saggio proprio della seminalità del repertorio bachiano, e di come vi si possa far germinare cose, per noi, più propriamente classiche (con la Fantasia & Fugue in sol minore il Barocco non è quasi più, e pare svanire). Tutto eseguito a puntino dall’ensemble, come sempre. Trattandosi di un esperimento, facilmente non si tratterà del miglior Bach della vostra vita, ma certo è curioso.
Cadence — Cinder Well (Free Dirt, 2023)
Colei! Amelia Baker, in arte Cinder Well, ci ha deliziati col suo folk dei due mondi: californiana di origine, si è fatta adottare dall’Ibernia, studiando la musica locale presso maestri del calibro di Martin Hayes, ed è presto arrivata a quello che lei stessa definisce come un “doomy folk from the depths”: armata di un fiddle ostinato, un lavoro chitarristico pesante e austero, una voce metallica, sottile e recitativa, una sensibilità attenta alla natura e ai dettagli, ha proposto un approccio alla tradizione fragile e tombale, romantico, mitico e tenebroso, veicolo della mia compagna melanconia, che ne ha fatto un riferimento della scena attuale, e una deliziosa spina nel cuore per chi si è trovato su quel filo rosso sangue che sta tra il folkettaro e il darkettone. Se l’omonimo Cinder Well è ancora legna verde e ha il sentore di una prova generale, abbiamo già una visione pienamente realizzata nel dittico successivo, composto da The Unconscious Echo (sentite Through the Tendons e bevetene il delizioso dolore) e dal gravame di No Summer. Dopo un interludio assieme a Jim Ghedi, fatto di due tradizionali arrangiati “da lockdown” — quell’I Am a Youth That’s Inclined to Ramble di cui vi dissi agli albori di questa mia minuta avventura — eccoci con un nuovo disco, segnato da una nuova esperienza: il ritorno a casa, in California, il sole ritrovato, e un umore diverso, una casa calda e un’Ibernia come luogo della memoria, più rarefatto di prima.
Il disco si caratterizza innanzitutto per un maggiore dispiegamento di mezzi, con la produzione del già olimpico John "Spud" Murphy che offre un missaggio più stratificato, e un gruppo più completo, con una sezione ritmica completa e prominente e con inserti strumentali di livello, specie da parte del violino di Cormac MacDiarmada dei Lankum. Non si pensi che lo spirito goth sia venuto meno o, peggio, che la proposta si sia fatta meno graffiante e più ruffiana, non questo. Ma il tutto è diluito nell’oceano che separa le due case della cantante, i toni sono più ariosi, variegati, con una preminenza di atmosfere salmastre e di distensioni che rendono le suggestioni più sottili, i brividi più sottopelle, le forme più vicine a quella West Coast che prima era assai più allusa; a contraltare di tutto ciò una promozione a base di fotografie marine e di video allusivi, dove la nostra si serve come mai aveva fatto della sua ramata e austera bellezza (“ma quindi ti sei innamorato di nuovo, pifferaio delle mie ghette?”, lecitamente vi chiederete. Oh, sì, stolto che sono). Da segnalare l’esplosivo esordio di Two Heads, Grey Mare, con suggestioni sull’immaginario delle selkie; la melanconica galoppata a casa di Returning; l’interludio funereo di Well on Fire; il mistero paganeggiante di Crow; l’arcano viaggio con inizio a cappella di A Scorched Lament; e l’inaspettata chiusura lunare con una I Will Close In the Moonlight per soli voce e piano, che avrebbe reso fiera Sandy Denny. In effetti si segnala tutto, ahimè, mi ha preso e sono perduto.
Manca solo di segnalare che, nel mezzo della crisi di mezz’età — no, scherzo, sono nato novantenne in spirito e non mi succedono queste cose — Amelia mi ha ammaliato con le sue fantastiche magliette (di magliette dei gruppi ne ho avute due nella vita, nessuna delle quali comprata da me; non è cosa scontata); e che la nostra vende lezioni di musica online: io non ne approfitto perché la scarsella piange, ma voi pensateci.
The Forest in Me — Xylouris White (Drag City, 2023)
Ci spostiamo a Melborune, Australia per la nuova operetta del fantastico duo composto da Giorgios Xylouris, cretese suonatore di bouzouki, e dal percussionista di origine statunitense Jim White, latori di un folk ostinato e venato di post-rock che risulta in dei pezzi, come si diceva ai miei tempi, intrippanti, capaci di una sottile tensione e di una sospensione della coscienza propria di cose settantiane come la Third Ear Band (è un parallelo che non vedo mai fare ma a me è venuto subito, sarò stronzo). Per un disco di studio dobbiamo tornare indietro al ‘19, anno di uscita di The Sisypheans, bel discone fatto di brani espansivi e ossessionati, dominati dalla voce di Xylouris.
Quattro anni dopo abbiamo un dischino (si sente tutto in una mezz’oretta; ma è quel che ci vuole) prodotto da Guy Picciotto dei Fugazi, consistente in numerosi, brevissimi episodi strumentali, sospesi e quasi destrutturati, degli stralci atmosferici che talvolta non sembrano nemmeno risolversi. L’unico brano davvero esteso è verso la fine, una Memories and Souvenirs dominata dal violino isterichetto di Picciotto. Oltre a questa si segnalano la chiusura sinistra di Long Doll, la percussiva ed ebbra Red Wine, una Seeing the Everyday che solletica coi suoi pizzicotti alti e il goth scarnificato di Missing Heart. Il duo nel complesso non si smentisce, con uno stacco netto dai dischi precedenti per qualcosa di ancora più estraniante, e fascinoso proprio per questo; un affastellamento di viaggetti che, insieme, fanno fare un viaggione. Se vi manca un disco per ondeggiare la testa e rarefare i pensieri, tenetelo da conto.