La retrorecensione di Death Gate — gennaio 2012
Una serie di avventure che sono un caso di scuola
Dopo questo aggiornamento, la rassegna di riciclaggi videoludici si ferma fino al 21 agosto. Si riprende dal 22 e si conclude prima di settembre.
Qui mi occupo di uno degli ultimi sussulti avventurosi dell’ormai di fatto scomparsa Legend Entertainment. La caratteristica principale delle avventure di questa casa è che, salvo alcuni elementi ruolistici e sezioni distinte, ricalcano la struttura di un’avventura testuale. La cosa è più evidente che mai nelle loro prime avventure fino a Gateway II: Homeworld, dotate di un caratteristico sistema a finestre che permette di aggiungere o togliere elementi d’interfaccia — schermata dello scenario (sempre statica), verbi, inventario, bussola — e che, al minimo, lascia il giocatore con un’avventura testuale nuda e cruda, con sole descrizioni e parser per digitare i comandi, al netto di alcune sequenze d’intermezzo per far avanzare la storia.
In questa recensione non chiarisco queste cose nel modo dovuto e faccio una rassegna dei loro giochi molto superficiale e limitata ad alcune delle uscite attigue a Death Gate: restano così fuori dei piccoli oggetti di culto come la serie Spellcasting (alias un Harry Potter in anticipo sui tempi, con in più l’elemento erotico e il fatto di essere, be’, interessante e divertente) e le stranezze supereroiche di Superhero League of Hoboken. Per non dire di come proseguì la serie “romanzesca” dopo Death Gate, coi fascinosi (e misconosciuti nei nostri lidi) Callahan’s Crosstime Saloon e John Saul's Blackstone Chronicles. In generale ho un’alta stima di queste avventure, mi spingo a considerarle spesso più interessanti dei soliti noti di Sierra e LucasArts, e mi vien da pensare che siano state meno considerate perché più verbose e meno spettacolari in un’epoca in cui ciò pesava molto (oggi nessuno lo ricorda più, ma il fascino delle avventure grafiche fino ai primi anni ‘90 stava proprio nelle loro piacevolezze audiovisive, inimitabili da altri generi). Tant’è, volevo recensire un gioco in particolare e mi sono concentrato su quello. Mi resta l’amarezza di non aver fatto bene quanto avrei potuto.
Sarebbe stato il mio ultimo articolo per un bel pezzo; di lì a poco sarebbe iniziato per me un periodo esaltante ma gremito di illusioni, preludio a uno più lungo e disperato che mi spinse a ritirarmi e a starmene telematicamente nascosto per un bel pezzo — nel periodo ’14-’16 persi addirittura la voce (riuscivo a parlare, ma se provavo a cantare non usciva niente), figuriamoci la penna in che condizioni versava. Avrei ripreso in anni recenti fino, come accennavo, a interrogarmi sul senso stesso della forma recensione; salvo ritrovarmi con abbastanza voglia di scrivere per farmi una newsletter tutta mia, incentrata su passioni fino a quel momento più riposte. Ma non divaghiamo.
Venendo all’articolo, ho decisamente rimaneggiato la sinossi della storia, la cui tortuosità non potevo sopportare. Inoltre le considerazioni finali non sono del tutto valide oggi: le avventure più vecchie (assieme a Mission Critical, l’ultima pubblicata) sono in vendita su GOG. Ancora nulla da fare però per la serie di avventure a ispirazione letteraria, Death Gate incluso, immagino per questioni di diritti sulle opere ispiratrici.
Originale su Ars Ludica, qui.
Sviluppato e pubblicato da Legend Entertainment | Piattaforma PC MS-DOS | Rilasciato nel 1994

Al tempo che Berta filava, Enrico IV andava a Canossa a trollare e le avventure grafiche erano in auge anche presso la stampa, Legend Entertainment aveva saputo crearsi una propria fetta di pubblico come usava spesso allora; ovvero proponendo un design, una visione, un motore e un’interfaccia propri e immediatamente riconoscibili per poi iterarli nell’arco di svariati titoli, variandoli quanto bastava ma facendoli risultare, nel complesso, solidi e rassicuranti. Stando sulle generali la casa americana, dopo gli esordi nel campo delle avventure testuali e prima di condannarsi a morte con la svolta verso gli FPS (The Wheel of Time e Unreal II: The Awakening), era specializzata in avventure grafiche in soggettiva, a schermate pressoché fisse (salvo poche animazioni), con molto testo a corredo ed elementi ruolistici variabili a ricordare le radici del genere, e con altre caratteristiche distintive che vedremo di seguito.
Il presente Death Gate in particolare fa parte di un’infilata di avventure basate su ambientazioni tratte da serie di romanzi fantasy di successo, senza peraltro farsi troppi scrupoli a rimaneggiarle: dopo Companions of Xanth (dall’interminabile e bizzarra saga di Xanth di Piers Anthony) e prima di Shannara (dall’omonima spataffiata in un incredibilione di volumi di Terry Brooks), quest’avventura ci fa vivere una versione condensata e modificata delle avventure narrate nel Ciclo di Death Gate della famigerata coppia Margaret Weis-Tracy Hickman; ciclo di cui a chi scrive, sia detto per inciso, cale il giusto.
Impersoniamo quindi l’eroe principale, tale Haplo, membro della genia, un tempo potentissima, dei Patryn come il suo mentore Xar, che incontriamo all’inizio: essa aveva coltivato una lunga rivalità col non meno potente popolo dei Sartan, con cui si contendevano il mondo di Krynn [notoriamente il mondo della saga di Dragonlance, ma io allora non lo sapevo, ndr], e che infine gabbarono i Patryn in una maniera affatto curiosa: essendo la magia del mondo basata su rune, o iscrizioni, che donano potere sugli enti denotati da esse, sei Sartan seppero isolarne le componenti fondamentali in cinque rune magiche aggregate fra loro in un sigillo; e infine lo divisero, disgregando Krynn in quattro mondi distinti e legati a uno specifico elemento, più un quinto, il Labirinto, in cui tenere prigionieri i Patryn. Nel frattempo i Sartan presero possesso degli altri mondi, collegati tra loro dal portale detto Death Gate, salvo poi perdere i rispettivi contatti e sparire misteriosamente. Il summenzionato Xar, tempo dopo, riuscì nell’impresa di scappare dal Labirinto, ormai privo di carcerieri, e di scoprire come viaggiare tra i mondi, liberando col tempo diversi suoi simili. Desideroso di una definitiva rivalsa verso i Sartan e di assicurare una posizione di assoluta egemonia ai Patryn, egli affida a Haplo una sgobbata di titaniche proporzioni: usare una nave magica per viaggiare verso i mondi elementali, lì recuperare le rispettive rune che, riunite poi nel Nexus, dovrebbero riportare il mondo al suo stato originario, e scoprire nel mentre che cosa è stato degli odiati rivali. Per viaggiare nel Death Gate occorrono una nave capace di volare grazie alla magia e la conoscenza della grafia della runa corrispondente al mondo che si intende raggiungere; e iniziamo con una soltanto: quella del mondo dell’aria, Arianus. Questa necessità ci costringerà ad esplorare gli altri mondi linearmente (il che, invero, indispone un po’, viste le premesse), imbattendoci in ambienti e problemi diversi, risolvendo vari casini collaterali che si mettono sulla nostra strada e scoprendo, e non potrebbe essere altrimenti, che molte cose non sono come sembrano.

Il prosieguo dell’avventura ci vedrà dunque esplorare questi quattro curiosi mondi, fortemente connotati: Arianus, mondo dell’aria fatto di isole fluttuanti; Pryan, mondo del fuoco dotato di quattro soli, cavo e abitato nella parte interna, densa di una giungla fittissima e con misteriose cittadelle edificate dai Sartan; Abarrach, mondo della pietra, enorme asteroide vulcanico pieno di magma e di negromanzia, in cui la vita è così aspra che il lavoro è delegato a dei non-morti; e Chelestra, mondo dell’acqua, un globo pieno di fluido (respirabile ma capace di neutralizzare la magia) con un “sole marino” al centro e città all’asciutto protette da cupole. La mano degli autori è ben visibile nel bestiario da GDR dei tempi d’oro e negli abitanti di questi mondi, divisi tra le solite razze riunite sotto il nome collettivo di “mensch”: umani, nani ed elfi, divisi dalle classiche faide che ricordano i cantoni senesi e che ci toccherà, talvolta, ricucire per i nostri fini.
Presentazione e interfaccia sono quelle tipiche della casa, debitrici del suo passato di gloriosa forgiatrice di avventure semi-testuali (la serie di Gateway e il bizzarro Eric the Unready, fra le altre): Il mondo di gioco è composto da schermate immote, tolte poche saltuarie animazioni, che rappresentano l’ambiente dalla prima persona del protagonista, spesso accompagnate da descrizioni nel log testuale in basso e disegnate con estrema perizia e cura per i dettagli; anche grazie alla risoluzione SVGA, non ancora standard all’epoca [tanto che esiste un’edizione in bassa risoluzione di questo stesso gioco, di cui non sapevo nulla, ndr]. Il movimento da una schermata all’altra avviene attraverso una sorta di bussola con otto direzioni (più i movimenti in alto e in basso, al centro) nella quale sono illuminati gli spostamenti disponibili. Peraltro le schermate, una volta che le si è visitate, vengono ordinate in una mappa consultabile a parte, in cui le vediamo disposte in un reticolo che le collega dalle rispettive direzioni: l’effetto è spesso abbastanza disorientante (principalmente perché le direzioni indicate non sono sempre coerenti con quanto vediamo), ma nel complesso il sistema è efficace. È previsto un intensivo collezionare oggetti, visualizzati nell’inventario in basso, e a lato è disponibile un’interfaccia a verbi, alcuni generici e sempre disponibili, altri specifici per un oggetto e subordinati alla preventiva selezione di esso – ottimo espediente per prevenire la sindrome del “provare tutto con tutto”. A corredo di questo scheletro principale ci sono pochissimi filmati prerenderizzati (presentazione, finale, transizione da un mondo all’altro) e svariati intermezzi con illustrazioni e didascalie: nel complesso il tutto è volutamente immoto e retrò, tanto che persino i dialoghi, condotti con un tipico sistema a scelta multipla, avvengono in schermate a parte con l’effigie del personaggio e il testo, e pure le eventuali morti del protagonista sono semplicemente descritte; senza contare la necessità di leggere lunghi diari rinvenuti in giro e da consultare in momenti diversi. Altre funzioni caratteristiche del sistema sono i tasti “undo”, per annullare l’ultima azione compiuta, e “wait”, da utilizzarsi quando l’esito di una nostra azione richiede che passi del tempo (tempo che, si badi bene, non passa se non premiamo il tasto); oltre a un sistema di punteggio in stile Sierra.
In questa struttura comune alle altre avventure Legend si innestano caratteristiche specifiche per il singolo titolo: in Death Gate in particolare dovremo vedercela anche con puzzle di stampo classico in grafica prerenderizzata (si veda il sistema di tubi da sistemare su Arianus), con la necessità di portarci dietro dei compagni di viaggio che fungeranno da risolutori di puzzle (in Xanth ne avevamo solo uno da scegliere all’inizio, e in Shannara il concetto vedrà uno sviluppo ulteriore) e con la risoluzione di molti enigmi mediante la magia caratteristica di Patryn e Sartan: proseguendo, infatti, avremo modo di apprendere svariate rune magiche, basate su un sistema a incastro di segni più semplici (in un’occasione dovremo anche comporre una runa a mano — una caratteristica intrigante ma davvero sottosfruttata) e dalle proprietà spesso interessanti: tra le altre, si ricordano magie che permettono di assorbire totalmente la luce in un oggetto nero, scambiarsi di posto con altri, trasformare ambienti dipinti in sacche di realtà a cui accedere, animare statue, possedere altri viventi e molto altro ancora. Un sistema intelligente per ampliare le nostre possibilità e, data la specificità degli effetti magici di rune e oggetti, di aggiungere rigore agli enigmi, generalmente piuttosto logici e appaganti, per quanto a volte scadano nel sibillino tipico di certi rompicapo vecchio stampo o si basino sul ritenere nozioni che dovremmo esserci appuntati a parte (nel finale, per esempio, diventa essenziale ricordarci una cosa detta da Xar in uno dei dialoghi tenuti con lui, mai più ripetuta e non rinvenibile altrove).
Nel complesso un’avventura affascinante, anche per chi non sia interessato al materiale ispiratore, e particolarmente adatta a chi ama un approccio avventuroso al tempo stesso antico e distante dai paradigmi fissati dalla LucasArts e dai diretti concorrenti; un po’ penalizzata giusto dalla pretesa di condensare una saga molto lunga, cosa che restituisce l’impressione di una scala troppo piccola per tutta la carne che si voleva mettere al fuoco: le visite ai vari mondi diventano infatti sempre più brevi, come se le ambizioni si fossero fermate di fronte alla necessità di non rendere il gioco interminabile. Forse il tutto avrebbe meritato di venire spalmato su un paio di titoli distinti, tanto più che anche il finale è migliorabile e un po’ tirato via. Quel che non funziona nella narrazione risulta comunque compensato dal valido design, e se siete appassionati del genere ne trarrete molto diletto.
Death Gate fa parte della schiera dei titoli esclusivi per CD-ROM (per via dei pochi filmati e del molto, ottimo parlato) ma che girano sotto ambiente MS-DOS: l’ormai leggendario DosBox saprà venirvi in soccorso allorché entrerete in possesso di una copia. Al momento, purtroppo, nessun negozio online mette a disposizione il pur meritevole catalogo storico di Legend Entertainment.