Dischi '22 #12: Toumani Diabaté e London Symphony Orchestra; John Renbourn Group; Mama's Broke; Immanuel Casto
Opinioni un po' più miste del solito, Mali e India fra noi, e di come imparai a non preoccuparmi e a dimenticare il sommario la volta scorsa
Kôrôlén - Toumani Diabaté e London Symphony Orchestra (2021)
È bene che non aspetti ancora a dire della musica malese e di uno strumento il cui colore sta conquistando sempre più spazi nel folk contemporaneo: la kora, un tipo di arpa a ponte diffuso in tutta l’Africa occidentale, con due file di corde che consentono di suonare due voci (è possibile, e usata, anche una combinazione di ostinato e melodia) e un timbro affine anche alla famiglia degli liuti, data la tecnica molto simile richiesta per pizzicare. Strumento, è ben chiaro, duttile e piacevolissimo, e da un po’ di tempo oggetto anche sui nostri lidi di un meritato apprezzamento.
A suonare la kora sono in prevalenza i griot (letto alla francese), ovvero i bardi di Dungeon’s & Dragons nella realtà dell’Africa occidentale di oggi, comprese le funzioni di ambasceria e di trasmissione della lore. Toumani Diabaté è appunto una figura di questo tipo, settantesimo della sua stirpe. Il disco eterna un concerto del 2008 con brani del suo repertorio arrangiati per orchestra ed eseguiti, appunto, dalla London Symphony Orchestra. In generale il risultato è qualcosa di cullante e trasognato, morbido e affascinante, il tocco di Diabaté è superbo e l’orchestra appoggia, infastidendo solo di rado, nel suo sforzo di rendere il repertorio amichevole al pubblico europeo con esiti quasi sempre felici, ma quasi appunto (Cantelowes Dream ad esempio cita Morricone in modo abbastanza sfacciato, e non posso credere di averlo sentito solo io). Come introduzione a un mondo che merita la scoperta, comunque, non posso che raccomandare una buona orecchiata.
A Maid in Bremen (Live at Roemer, Bremen, Feb. 14th 1978) - John Renbourn Group (2021)
Che primizia. Con quello che praticamente è un bootleg ufficiale (a partire dalla grafica, francamente un po’ pedestre) arriva un’esibizione del delizioso ed estemporaneo gruppo del Grande Vecchio Asceso John Renbourn, chitarrista e revivalista meraviglioso che, in società col pari Bert Jansch, fece sognare grandi e piccini coi Pentangle, un vertice del folk revival discografico impareggiabile, se non altro, per la maestria strumentale, latore di diamanti discografici come Basket of Light e Cruel Sister, ricchi di tradizionali arrangiati e composizioni originali sofisticate in una sintesi di perfezione mesmerizzante, quasi eccessiva.
Fatto sta che il gruppo, come spesso accadeva allora, aveva troppe belle teste perché potessero stare a lungo attaccate allo stesso corpo, e il suo destino fu quello di una vita intensa ma breve. Di Jansch avremo modo di dire; quanto a Renbourn, aveva già iniziato da solo la sua impresa di esplorazione filologica, mettendosi a scavare, a sfornare mirabilie che abbracciano e baciano i secoli come Sir John Alot of Merrie Englandes Musyk Thyng & Ye Grene Knyghte (ah, l’amour!) o The Lady and the Unicorn (ahhh, il cuore mi si strappa!), finché nel 1977 riunisce dei musicisti sotto il nome di The John Renbourn Group e si dà all'intersezione tra folk revival e musica popolare indiana, coadiuvato dalla tabra e dalle percussioni di Keshave Sathe. Il risultato è ben noto, e si tratta di quel piccolo classico, quel sogno cristallizzato che ha nome A Maid in Bedlam - disco che non smette mai di ispirare e che anzi è la radice di una nuova, promettentissima ondata, che ha visto i suoi prodromi un po’ di anni fa con l’operazione The Imagined Village e che oggi è guidata da formazioni che sono tra le mie ultime e più sentite cotte: in primis Yorkston / Thorne / Khan, di cui ho già detto, e il più avanguardista iyatraQuartet (recuperate il loro Break the Dawn del 2020, in fretta, ché la vita fugge).
Tornando a bomba, l’offerta qui è chiara sin dal titolo: un concerto registrato a Brema di quella formazione mirabolante, qui graziata anche dalla presenza di Jacqui McShee, superba voce femminile dei Pentangle. La sua presenza è un buon pretesto per proporre dei tradizionali presi di peso dal loro repertorio, quali A Maid That's Deep in Love, Will o’ Winsbury e Cruel Sister; per il resto viene eseguito gran parte di A Maid in Bedlam com’è normale aspettarsi, e resta solo da segnalare la sorpresa improvvisativa di Sidi Brahim. Che dire di più? Siamo di fronte a un pinnacolo del folk revival, ascoltate, amate, e più non dimandate.
Narrow Line - Mama’s Broke (2022)
Secondo disco da questo duo femminile dalla Nova Scotia, con una bizzarra alternanza tra brani dall’attitudine bluegrass, impasti vocali dalle tenebre (October's Lament, The Wreckage Done), e persino un uso degli archi che arriva dritto dall’Europa orientale (Pick the Raisins From the Paska). L’insieme mi risulta affascinante ma anche disorganico, certo più vario del debutto Count the Wicked ma non saprei dire se più consapevole - le signore mi intrigano ma, ahimé, non mi conquistano. Il talento però c’è, le aspetto volentieri al terzo disco per ricredermi.
Malcostume - Immanuel Casto (2022)
Seguo il Casto Divo, re del porn groove, da più tempo della maggior parte degli altri là fuori, cioè da prima di Adult Music, il suo primo disco curato da Keen e il primo che si elevasse al di sopra del divertimento trash (ora lui fa finta di niente su quegli anni ma chi c’era ricorda, oh, se ricorda). Da allora con la sua figura ho stretto un rapporto… non direi di amore e odio, quel che c’è è amore alla fine - ma di amore per certi aspetti e, quantomeno, distanza, mancanza di interesse per altri. Sono stato a due suoi live divertendomi un mondo, mi risuona molto la sua passione per lo humor nero, in me persino estrema (ad oggi non c’è un comico che io sappia tollerare, l’ultimo show che mi ha fatto ridere sul serio essendo Ash vs Evil Dead), resto convinto che i suoi dischi del periodo d’oro sono qualcosa di cui in Italia avevamo molto bisogno, graffianti e disimpegnati il giusto (giusto The Pink Album mi scende un po’), apprezzo i giochi e molte iniziative, dall’unica posta del cuore sensata e utile che abbia mai conosciuto alla serie di incontri su Twitch di qualche anno fa; senza contare l’empatia naturale che porto a una figura così erratica, che non riesce a stare a fare una cosa sola - al di là della differenza fondamentale che io non combino mai una mazza, ma insomma, ci siamo capiti.
Dall’altro lato abbiamo le attività da presidente del Mensa, laddove io sono un negazionista del QI - ogni test che ho fatto conferma che sto nel famigerato 98° percentile, ma è qualcosa a cui non do alcun significato (se non inclino a dargliene uno negativo, persino) e nel club non voglio entrarci -, l’adesione a un discorso progressista con relative buzzword che io, contemplativo, umanista sui generis e di fondo reazionario [1], malsopporto nella sua effimeratezza (per esempio, sempre su quell’irrequietezza che si diceva, nel paese del Rinascimento e degli eruditi perché mai al mondo ti devi definire multipotenziale come in un TED talk? Santo cielo). Ma soprattutto, ho un problema serio con la sua inclinazione alla satira: non che abbia qualcosa contro la sua esistenza e il diritto a farla, ma nella sua forma più diretta e sistematica non è roba per me; ci vedo una forma di compiacimento, di compattamento del gruppo in forza di avversioni comuni, o persino una variante di un altro genere anche più indigesto: quello del predicozzo [2].
E così arriviamo a questo album, che nelle sue ambizioni di commento sociale presenta anche momenti alti, come la deliziosa parodia sanremese di D!CK PIC e il commento all’etichetta del cuccaggio online di Wasabi Shock. Non mancano un momento più sentimentale e ctonio con Sangue e incenso, che a me ricorda la perla nascosta Da quando sono morto, e una spassosa scemenza dance delle sue con Eternit. Ma segue poi un profluvio di - non saprei come altro definirle - polemicuzze sui tipi del conservatorismo social, francamente fuori tempo massimo, tutte tese a compattare un fandom che la pensa già in un certo modo senza sorprenderlo; insomma, una didascalia sui razzisti online (Amore ariano) era proprio necessaria? L’aggressione al boomer ingenuamente arrogantello (Insegnami la vita), ma che davéro? E le ipocrisie provinciali a regime generico massimo (Almeno non è gay)? E che non ho preso un abbaglio è chiaro dall’outro, con l’interrogativo sul senso di fare un album e relativa riflessione sulla funzione, appunto, aggregante del cantautorato di una volta. Ecco Casto, io qui ti prego, no. Il cantautorato di una volta no.
A questa tornata si è preso del buon tempo (sette anni!), ha voluto fare una cosa diversa - e fin lì ci sta tutto, il suo gioco rischia sempre di mostrare la corda - ma il risultato mi ha un po’ perso. Con immutata stima, e con la voglia di farmi comunque un giro all’Alcatraz quando passa, per carità.
[1] Posso (credo) sembrare progressista a tratti perché: 1) a forza di reagire indietro di secoli faccio tutto il giro; 2) se poco mi importa dell’asse progressista-conservatore, m’importa molto dell’asse autoritario-libertario, pendendo molto verso il secondo polo; 3) ho un rapporto ancora non risolto con un retroterra familiare piuttosto rosso. Ma mi sono allontanato, se non per tutto per molto, se non per il merito di ogni questione certamente per adesione sentimentale, per sensibilità, forse per scala di priorità persino. Questo è, c’è poco da fare.
[2] Non ho fatto una ricerca approfondita sulla cosa, ma resto molto persuaso che non è un caso se gli USA sono sia il paese della stand-up che dei telepredicatori: in effetti, il mio misero cervello li distingue a malapena.