Dischi '22 #14: Sea Song Sessions; Lodestar Trio; Al-Qasar; Hairetis Harper
Dal Sahara al Mare del Nord con tutto quello che c'è in mezzo, e una puntata sul Baltico
Sea Song Sessions - Jon Boden, Seth Lakeman, Ben Nicholls, Emily Portman, Jack Rutter (2022)
Non si parla di folk isolano, alias il meglio della vita, senza parlare di sea shanties e di canzoni marinare in genere. Lunga e gloriosa è stata la discografia a tema, sulla scorta della valorizzazione del materiale che dobbiamo a Ralph Vaughan Williams che gli dèi lo abbiano in gloria; e qui abbiamo l’ultimo tassello di questa amena tradizione a opera di un supergruppo formatosi in occasione del Folkestone Festival e pervenuto ora a registrare del materiale ormai classico per il filone, conferendogli nuova vita.
Mitologica la formazione, che comprende: Jon Boden, mente dell’altro supergruppo Bellowhead, e che da solo ci ha deliziati l’anno scorso col cantautorato intenso e chubby di Last Mile Home; il rude Seth Lakeman al violino, mandola e voce abissale che non sentivo da una vita; quel gran pezzo di turnista di Ben Nicholls al contrabbasso; Emily Portman alla voce, concertina e harmonium, membro di The Furrow Collective e anche lei latrice l’anno passato di un gran discone, il sofisticato e variegatissimo Coracle; infine il tradizionale e solidissimo Jack Rutter, che fornisce chitarra, bouzouki e la sua pastosa voce tenorile all’insieme.
Tanta copia di voci e strumenti vivifica il materiale tradizionale con arrangiamenti magari non dei più ardimentosi e d’avanguardia, e nondimeno grassi, abbondanti, stratificati, classicamente piacevoli e irreprensibili nell’esecuzione; il tutto alternato a brani originali così perfetti da infilarsi nella tradizioni senza attriti, quali The Good Ship Anny (un pezzo di bravura di Lakeman) e la drammatica Salvation Army Band Girl (di Boden, col suo tipico incedere per gradi). Il disco è solidissimo in tutto il suo svolgimento e solo col più esplicito rinvio al gusto personale potrei indicare qualcosa in particolare; ci metto quindi la solare The Dreadnought (Bound Away), l’elettricissima e corale versione di Fire Marengo e la spettrale The Lady and the Lantern. Amabile.
Bach to Folk - Lodestar Trio (2022)
Passiamo a un freschissimo trio d’archi anglo-svervegese, che comprende Max Baillie al violino dal lato inglese, dal lato svedese Erik Rydvall alla nyckelharpa (parente strettamente scandinavo di ghironda e viella), e da quello norvegese Olav Mjelva allo hardanger, lo strumento nazionale norvegese, un violino dotato di capacità armoniche grazie a una seconda fila di corde risonanti con quelle effettivamente suonate (una versione contemporanea, dal registro più grave e più affine al violino, lo hardanger d’amore costruito da Salve Håkedal, è divenuto famoso tra i folkettari in quanto strumento d’elezione dell’ibernico Caoimhín Ó Raghallaigh, membro dei leggendari The Gloaming).
Il disco di debutto della formazione non manca di ambizione, consistendo per lo più - e lo si intuisce dal titolo - di brani folk arrangiati a partire da scampoli delle composizioni di Bach per violino e violoncello; proprio lui, il Giovanni Sebastiano che tutti amiamo fornisce il canovaccio dei brani, spesso sviluppati dal trio con ulteriori improvvisazioni. L’operazione è certo azzardata, per quanto approfitti di un’oggettiva versatilità intrinseca al repertorio strumentale di Bach, da sempre trascritto per strumenti diversi con molto agio, e già riverberante nell’ambiente folk - la prima associazione che mi è venuta è alle varie esecuzioni al mandolino a opera di Chris Thile, da solo o in tour coi Punch Brothers. Un asso del bluegrass che fa Bach, non è un mondo fantastico?
Fatto sta che un’etichetta del calibro della Naxos crede in questa cosa, e sentendo mi sento di concordare. L’intersezione tra barocco e folk è condotta in modo estremamente misurato e intelligente dai tre, che osano persino mettere in mezzo una melodia riconoscibile da chiunque come quella dell’Aria sulla quarta corda (Air on the G String, appunto) e che trovano il modo di infilarci persino Lulli (con un brano dall’Alceste) e Tarquinio Merula con la sua Ciaccona, oltre a composizioni originali di gusto più strettamente scandinavo (Hjaltaren, Jubileumspolska, Rolling to Røros). La nychelharpa e lo hardanger forniscono il necessario continuo e il violino domina la parte melodica. Se qualcosa si può appuntare è che l’insieme risulta un po’ freddino, e tuttavia colpisce, e mi sono trovato facilmente immerso in un'atmosfera meditabonda e rustica al tempo stesso. Sorprendente.
Who Are We? - Al-Qasar (2022)
Mi sembra opportuno, a questo punto, tornare a fare casino. Un altro primo album (non proprio un debutto, visto che fa seguito all’EP Miraj), questa volta da una formazione internazionale con base in Francia, capeggiata da Thomas Attar Bellier, del quartiere Barbès a Parigi, e con membri da Algeria, Marocco, Egitto e Stati Uniti. La proposta viene definita dai nostri Arabian fuzz, con tanta percussività (a parte Bellier, con tastiera, chitarra e saz elettrico, il resto del gruppo è tutto sezione ritmica!) e frequenze medie appalla a creare un’atmosfera casinara e punk. La proposta non può che ricordarmi l’esplosivo debutto di due anni fa dei franco-marocchini Bab L’Bluz, il cui Nayda! mi ha deliziato con tanta desertica pestosità, forti di un’attitudine più festaiola e, be’, blues rispetto a quella più rumorista e rabbiosa che troviamo qui.
Non mancano ospiti illustri anche tra noi visi pallidi, e così abbiamo le schitarrate di Lee Ranaldo dei Sonic Youth (nell’intro Awtar Al Sharq e nell’esplosivo Awal) e, nella protestataria Ya Malack, con le declamazioni di nientemeno che Jello Biafra dei Dead Kennedys. Gli altri ospiti sono meno noti ma dal contributo non meno prezioso, e abbiamo la splendida cantante di origini sudanesi Alsarah nella tesa Hobek thawrat, l’oud di Mehdi Haddab nella martellante Barbès Barbès, e la cantante egiziana Hend el Rawy nell’incalzante Mal Wa Jamal dominata da un bel basso. Di sicuro il gruppo si propone soprattutto di mettere in campo la proposta con vigore, e mancano forse un po’ di consapevolezza e di varietà compositiva - non manca però l’energia, e il disco si dipana come un vero, rabbioso e populistico spasso da banlieue. Il Maghreb post-coloniale, che sia per via diretta o per ispirazione, ci darà grandi soddisfazioni, oh sì.
Draft - Hairetis Harper (2020)
Chiudiamo con un’uscita non più freschissima, il debutto del duo composto dal suonatore cretese di liuto Yiagos Hairetis e l’arpista londinese Maria-Christina Harper, che si sono trovati a improvvisare insieme e infine hanno registrato questo gran bel lavoro.
È spontanea l’associazione con un altro duo simile per formazione e origine: parlo ovviamente di Xylouris White, duo composto dal cretese Giorgos Xylouris e dall’australiano Jim White (dei Dirty Three) col nome composto proprio allo stesso modo (non posso che raccomandare tutti e quattro i loro dischi, con particolare riguardo all’ultimo, spettacolare The Sisypheans del ‘19). Se anche l’attitudine improvvisativa è la stessa, sono però affatto diverse la strumentazione - Harper, nomen omen, è un’arpista, non percussionista come White - e di conseguenza l’attitudine; qui infatti sentiamo riverberare l’avanguardia più squisitamente britannica, per un risultato più morbido, amichevole e allusivo del post-rock martellante e ipnotico degli altri due, qualcosa che rinvia a tratti a tempi latini e a tratti, oso dire, persino al Canterbury. Tra i brani spiccano la blueseggiante Lost in the City, il timor panico di Tsakoniko, la nostalgia di Meadow e l’ostinato emozionante e gradualmente accelerato di Speedy che chiude il tutto. Affascinante, variegato, e un rinvio ad altre e squisite cose che spero di sentire al più presto.