Dischi '22 #15: Sam Lee; Angeline Morrison; Rosalie Cunningham
Del "flusso" perso e ritrovato, tanto folk, e l'ennesima sbandata
Ottobre è stato contrassegnato da scadenze strette (che hanno regolarmente cozzato con la mia pigrizia) e da un ponte conclusivo trascorso fuori casa - una serie di circostanze, insomma, per cui ho durato fatica a sentire i dischi con attenzione e soprattutto ho perso (come dicono i giovani della mia fantasia) il flow, il “flusso” scrittorio, per cui ho rimandato anche oltre l’effettiva necessità. Pazienza, andiamo avanti coi correttivi del caso - forse non mi va bene scrivere l’intera uscita in una sola sessione e dovrei preparare schede singole via via, forse dovrei anche decidermi a prendere molti appunti come tanti intellettuali e scrittori hanno suggerito nella storia (e facendo come loro, chissà che non me la creda); di certo ritengo di dover uscire con la newsletter più spesso, anche a costo di fare uscite più corte - e in effetti quattro dischi mi sembrano facilmente impegnativi per il lettore. Facciamo tre, dai. Dalla volta prossima.
Old Wow+ - Sam Lee (2020)
Uscita non freschissima, ma visti i tempi con cui Lui fa uscire cose nuove, ci sta.
E Lui è Sam Lee, che se chiedete a me, è quel che Donovan sarebbe dovuto essere e tutto sommato non fu (a partire dal fatto che non è una pizza): impresario, ottimo cantante baritono dai toni nasali e dal fraseggio asciutto, e soprattutto attivo ricercatore del repertorio delle isole britanniche, di cui ripropone il materiale con riarrangiamenti stravolgenti (al punto che, per correttezza, spesso cambia proprio il titolo rispetto al tradizionale di partenza) dandogli una svolta cameristica, teatralizzante (si vedano anche i video con la loro buona dose di teatrodanza), in cui si ravvisano anche le origini ebraiche del nostro, essendo spesso presente nell’arrangiamento un vago sentore di klezmer - spesso i recensori alludono a sfumature jazz e sinceramente non mi pare, se non per la strumentazione affine (e capirai) e lo sforzo di trattare i tradizionali come degli standard. Presumo che venga da dir così se il piano fa tanto di marcare un accordo sospeso o delle diminuite, che so.
In ogni caso questo Old Wow è l’ultimo lavoro del nostro, attraversato dal tema conduttore, venato di ambientalismo, dell’“antico stupore” per la natura. Ottima come sempre la band, che annovera fra gli altri Caoimhín Ó Raghallaigh col suo fido hardanger d’amore (il violino norvegese con capacità armoniche di cui già vi dissi) e, alla chitarra nonché alla produzione, Bernard Butler, membro fondatore dei Suede, e sapeste come mi commuovo quando un talento smette di rumoreggiare e si converte al folk e al più autentico sollievo delle genti.
Che dire dei brani? Intanto il segno più del titolo marca una riedizione (essendo il disco originale dell’anno prima) con live e tracce extra, tra cui la britteniana (?) Awake, Awake Sweet England (col video a Stonhenge, nientemeno), versioni live e improvvisazioni assieme agli usignUoli, a cui il nostro ha anche dedicato un libro (è fatto così, che gli vogliamo dire). Nel disco originale spicca tutto, ma dovendo proprio dire segnaliamo la martellante The Garden of England (Seeds of Love), la torch song musicarella Lay This Body Down, la John Barleycorn in variante d’atmosfera e l’intensa The Moon Shines Bright in duo con Elizabeth Frazer. Stupitevi anticamente e amate questo pazzo quanto l’amo io.
The Brown Girl and Other Folk Songs / The Sorrow Songs: Folk Songs of Black British Experience - Angeline Morrison (2022)
Secondo e terzo disco da sola in un anno per Angeline Morrison, cantante, polistrumentista (con un’apparente predilezione per l’autoharp, il salterio degli Appalachi) e ricercatrice di Cornwall, Inghilterra, ma dalle visibili origini africane. I due dischi sono attraversati entrambi da due temi, alternandone la prevalenza: The Brown Girl and Other Folk Songs evidenzia il potere della canzone triste e dolorosa (e non potrei essere più d’accordo), con brani per voce sola, due voci e uno strumento qua e là, andando alle radici della canzone isolana con illustri riprese - si segnalano la stessa The Brown Girl, ma anche la sempre dolentissima Our Captain Cried, una Cruel Mother impreziosita da flauti dritti e l’incontro tragico di voci e storie di The Well Below the Valley [1].
Il secondo disco, The Sorrow Songs, vede brani dall’arrangiamento più ricco e soprattutto originali, scritti dalla stessa Angeline, con ben altre ambizioni: includere l’esperienza nera nella tradizione della canzone folk britannica, giacché, riferisce lei stessa, non ha quasi mai visto altre persone nere in un folk club. Produce (e partecipa sviolinando) Eliza Carthy, che ha messo l’artista sotto la sua ala, e si dipana il drammone: il titolo parla chiaro e il repertorio è in gran parte dolorosissimo, quasi tutto incentrato su singole storie di persone nere che veniamo invitati a conoscere e riconoscere - Unknown African Boy (d. 1830) narra la vicenda dell’affondamento di una nave carica di schiavi, che lascia in particolare un bambino morto sulla rena; Black John è sul primo orticulturista nero d’Inghilterra di cui non è dato conoscere il vero nome; Go Home è dedicato a chiunque non sia stato accolto nel luogo in cui si è trovato a vivere; The Beautiful Spotted Black Boy ci parla di George Alexander Gratton, che divenne un fenomeno da baraccone a causa della sua vitiligine; Cruel Mother Country è una canzone antipatriottica sui neri costretti a combattere per difendere le colonie americane, poi resesi indipendenti, in cambio di vuote promesse; l’angosciosa Mad-haired Moll O’Bedlam è su Moll che risponde male a un ufficiale, il che, assieme agli “strani capelli”, le costa l’internamento in sanatorio; non manca una strizzata d’occhio alla murder ballad (o gaudio!) con The Hand of Fanny Johnson; e così via. Una collezione intensissima e suonata de paura, col contralto della Morrison che comunque ruba la scena.
Tantissimo pane fragrante per i denti del folkettaro, ma attenzione: è tutto in generale povero di groove e di dolenza irredimibile. Per me tutto benone, ma sappiate a cosa andate incontro.
[1] Tradizionale molto eseguito in Irlanda e associato alla Maddalena - la cantano i preti all’inizio del film Magdalene di Peter Mullan, e ora sapete perché. Ma forse la conoscete per la pressoché classica versione dei Planxty, oso sperare.
Two Piece Puzzle - Rosalie Cunningham (2022)
Per invertire l’umore un altro sopho secondo album, questa volta dall’ex mente dei Pulson (gruppo che mi persi completamente per la solita storia che per un pezzo non ho seguito niente, e perché sono un pirla), appunto Rosalie Cunningham. Lo stile della nostra (polistrumentista, chitarrista coi fiocchi e cantante… mezzosoprano, o così mi sembra) è contrassegnato da un revival della psichedelia dei Pink Floyd (quelli grandi e non spaccapalle, cioè quelli di Syd Barrett, ovviamente) e del prog pestato di gruppi come Allman Brothers e Jethro Tull (dei Genesis c’è un po’ nell’attitudine operettistica, molto meno nel suono o nelle soluzioni) - lei sostiene di dovere molto a Paul McCartney e mi perplimo, ma ok, l’attitudine alla filastrocca con stile dei Wings si sente. Fermo restando che Rosalie è una sventola estroversa e matta, cioè uno dei miei due o trecento tipi, quindi solo per questo superiore a tutti i suoi maestri, non poniamo tempo in mezzo e diciamo subito che il disco è pazzesco e mi ci sto divertendo un mondo.
Venendo più allo specifico, siamo di fronte a una raccolta polistilistica con toni quasi da music hall in acido, un’attitudine che a me (ma solo a me, mi sa) ha ricordato Hokey Pokey di Richard & Linda Thompson, esclusi gli episodi più tragici di quello - ma ripeto, magari sono io che considero Richard la Via, la Verità e la Vita e ce lo sento in tutti i dischi di fattura inglese. Il carosello inizia con Start with the Corners che sa un po’ di Doors e prosegue con un episodio esaltante dopo l’altro, dal vaudeville di Duet (assieme al marito o equivalente Rosco Wilson, che spero si renda conto di che fortuna c’ha), alle variazioni in botta di Tristitia Amnesia, nonché il personaggione settantiano di Donovan Ellington, la variatissima The Liner Notes e l’intimismo vagamente inquietante dei brani di chiusura, Number 149 e Fossil Song. Non sono più il progster di una volta, ma il mio fanciullo interiore non può che battere le manine cicciotte sentendo ripresi quegli stili in modo così sicuro e personale, e soprattutto, senza niente a che vedere con lo strame che ne ha fatto il metal. Insomma ho preso una sbandata, l’ennesima; del resto il mio castello interiore non è mai troppo affollato di dame.