Dischi '22 #16: The Watersons; Lady Maisery; John Smith
Con più link, l'indicazione dell'etichetta discografica quando la trovo e quando c'è, e tutto folk perché stavolta mi è venuto così
[Riedizione] Frost and Fire: A Calendar of Ritual and Magical Songs - The Watersons (Topic Records, 2022; orig. 1965)
La scusa è quella di una riedizione in vinile, ma ne approfitto per segnalare questo disco seminale, probabilmente il vero avvio al folk revival e il suo decollo dalle basi della rievocazione da un lato, dello skiffle dall’altro, e delle incisioni di Ewan MacColl dall’altro ancora.
I Watersons erano un gruppo familiare che deve il nome al cognome dei suoi membri — so che associazione vi è venuta subito, mascherine: la Kelly Family. Ecco, diciamo così — , composto inizialmente dai fratelli Elaine detta Lal, Norma e Mike, più un classico dei gruppi folk familiari che è il cugino imbucato, in questo caso John Harrison. L’operazione che questi compirono, cristallizzandola sulle prime in questo disco, fu semplice e geniale: ripescare un repertorio popolare di solito riservato alla voce sola (carattere del folk isolano, questo, che non se n’è mai andato), e riprodurlo per più voci con armonici. Sembra niente? Be’, è (suppergiù) qui che si inizia seriamente a concepire l’idea che l’industria del disco poteva ospitare anche brani tradizionali arrangiati, che uno strato si sofisticatezza in più era qualcosa che al pubblico poteva interessare. È (suppergiù) qui che inizia il revival.
Avrò modo e tempo, spero, di parlare anche di tutto quel che è germinato da questo gruppo — la carriera solista di Lal Waterson, la carriera meno solista di Norma, in seguito moglie del Grande Vecchio Martin Carthy e madre di Eliza Carthy, che avrebbero inciso insieme col nome di Waterson-Carthy e, a vari livelli, fatto un buon pezzo di folk inglese — , per ora vi lascio all’ascolto. Magari siete smaliziati e vi pare una pizza, ma apprezzate le melodie ripescate in seguito da mezzo mondo (no, non è un caso se le riconoscete) e pensate a quanto questo lavoro è fondamentale.
tender - Lady Maisery (2022)
Hanno scelto loro di mettere tutto minuscolo, non è un refuso.
Apprendendo dell’uscita di questo disco, presi contatto una volta di più con la mia pirlaggine: conoscevo quel fenomeno di Hannah James, cantante, polistrumentista e ballerina che delizia e incanta con dischi e collaborazioni — segnalo di nuovo quel portento folk di Sleeping Spirals con Toby Kuhn dell’anno scorso, nonché un altro portento come il precedente The Woman and Her Words col JigDoll Ensemble, del '19; e conoscevo anche la non meno fenomenale Rowan Rheingans, che produce bellezze a ciclo continuo — solo per le cose più recenti, The Lines We Draw Together da sola e l’ammaliante Receiver assieme alla sorella Anna, col nome di The Rheingans Sisters. Ma ignoravo che avessero creato anni fa un gruppo insieme! per la precisione un trio, completato dalla cantante, arpista e altro Hazel Askew, che incidentalmente è anche una tripletta di teste ramate, quelle che vo sempre cercando ché non si sbaglia mai. Fatto sta che proprio quest’anno, dopo una lunga pausa, tornano insieme e per l’autunno registrano un bel discone degno di loro.
La formula delle Lady Maisery è diversa da quelle adottate dai suoi membri in altri progetti: l’idea è quella di un folk caratterizzato da una primazia netta degli impasti vocali, che giunge fino ad alcuni brani interamente a cappella, laddove quelli suonati sono affidati ad arrangiamenti minimi, spesso solo a un sofisticato continuo o poco più, o ad enfasi affidate al fiddle e alla fisarmonica. Proprio un continuo di arpa e banjo apre il disco con un brano originale, la fascinosa title-track tender, ma abbiamo anche fior di coraggiosissime cover al femminile: ecco allora un’inneggiante ed estesa 3000 miles di Tracy Chapman, una sorprendente hyperballad di Björk per voci, mani e piedi (vedere il live qua sotto per credere) e una cullante child among the weeds di Lal Waterson (e rieccoli già, i Watersons!). Gli strumenti ricevono poi un rilievo inusitato nella conclusiva birdsong e nell’arioso singolo bird i do not know, ma il lavoro nel complesso mantiene un livello alto, senza veri inciampi. Un disco che è un bel viaggione agrodolce e femmineo (incazzato e decisamente sul politico a tratti, ma poi anche speranzoso e cullante), impreziosito da esecuzioni precise e fantasiose e da un accordo di voci impeccabile — e così ecco un altro gruppo che mi tocca seguire, ma in fondo l’inedia tra i dischi è un bel morire, di che mi posso lamentare.
The Fray / The Fray Variations - John Smith (Commoner Records, 2021 / 2022)
L’uomo che avrebbe seriamente bisogno di un nome d’arte, ma se lui è contento così chi sono io per.
Conoscevo già questo signore, ammetto, innanzitutto come turnista; in particolare come provetto chitarrista e corista al servizio della Signora del mio cuore e della mia anima di Lisa Hannigan, e solo accidentalmente mi imbatto nel suo ultimo lavoro, una laccatissima produzione a firma Ben Lakeman che ci propone tanto folk di quello morbido e grassoccio.
Come molti dischi di questa infornata, questo è pervaso da un’esplorazione dei sentimenti da lockdown, da solitudine, cadute e riprese. Gli arrangiamenti sono minimali (un po’ di piano qui, qualche ottoncino lì) e completamente al servizio del nostro, cantante tenorile fine e piacevole e, soprattutto, solidissimo chitarrista ritmico, già encomiato a suo tempo da John Renbourn (mica uno raccattato così) e specializzato nell’arpeggio con acustica ed elettrica (dallo stile alquanto pulito e liquido quest’ultima) e nell’uso di accordature aperte, tutto perfetto per le ballatone proposte. Il risultato, al netto delle notevoli differenze in vocalità e stile strumentale, mi rimanda a quello di una sua collega e amica (con cui si esibisce anche insieme), ovvero la Katherine Priddy che ci ha sorpresi con quel gran pezzo di debutto di The Eternal Rocks Beneath (e di cui vi avevo già scritto), e devo ammettere di preferire l’estrosità e il gusto più arcaizzante di lei. Ma non posso che encomiare la fattura del disco, l’ispirazione ben superiore alla media dei “dischi da turnista” e l’invidiabile orecchio melodico, con un gusto retrò che si esplica al meglio in singoli come la nostalgica Hold On, la galoppata di To the Shore e le tante, squisite collaborazioni: Eye to Eye con Sarah Jarosz, The Best of Me con la chitarra di Bill Frisell, la title track coi Milk Carton Kids e la melanconia di Star-Crossed Lovers con la stessa Lisa.
Non resta che segnalare il successivo EP The Fray Variations, dove parte dei brani viene remixato con l’apporto di un quartetto d’archi arrangiato da Steven Price e si aggiunge un brano nuovo, l’ibernicissima Dartmouth Ferry a tema familiare (dedicata al padre, precisamente), sottoposta allo stesso trattamento. Un risultato più cameristico e meditativo e per me, a onor del vero, leggermente migliore, ma a me piacciono gli strabordii.
Nel complesso non del tutto la mia tazza di tè, ma se cercate un accompagnamento acustico per l’inverno e siete tipi per il folk più poppeggiante e chubby, non saprei dove trovare di meglio in giro oggi.