Dischi '22 #5: Aguamadera; Ye Vagabonds; Simon Jones, Richard Thompson
Virtuosismi argentini, una chitarra per i grizzly, Eriu mi scioglie, edutainment folkeggiante
Las historias que han dejado - Aguamadera
Al secondo disco scopro questo duo di Buenos Aires, composto da Marco Grancelli e dalla considerevole María Cabral (parlando di musiciste donne mi do licenza perlomeno di accennare all’apprezzamento estetico laddove c’è; per farmi causa, il nome che ho dato è quello vero). In patria apparentemente sono già una faccenda abbastanza grossa e non c’è da stupirsene: il disco è un carosello pansudamericano (ci sono tutti i generi tradizionali meno frusti, praticamente) con ospiti locali di un certo livello, ovvero Raly Barruonevo, Elizabeth Morris e la colombiana Marta Gómez. I due, con supporto di turnisti per la sezione ritmica, se la giostrano, si (e ci) divertono ed è tutto, senza mezzi termini, suonato da paura (il singolo Cuentapesares in particolare è un pezzo di bravura). Vedere tanto giovane talento scalda il cuore. Se volete convincervi che Baby K o quelli lì di Despacito non rendono giustizia a quel che oggi va sotto il termine ombrello di “latino”, non sbagliate a partire da qui.
Nine Waves - Ye Vagabonds
Oh, my. Lo aspettavo da un pezzo questo.
I due fratelli MacGloinn tornano per il terzo disco, dopo le due precedenti squisitezze, e continuano inesorabili a far marciare a grandi falcate il folk dell’isola d’Eriu, sempre col loro stile dimesso & sommesso ma stavolta ancora più sofisticato. Il repertorio alterna tradizionali e originali (diversamente dai dischi precedenti, sbilanciati ora dall’una, ora dall’altra parte) eseguiti dal duo con la consueta maestria, i consueti impasti vocali di perfetta e disadorna efficacia, ma con in più i sottili e preziosi tocchi orchestrali del Crash Ensemble - una delle cose migliori che riscontro nella scena contemporanea è proprio l’uso del sostegno orchestrale, dimesso e con un ritrovato ottimo gusto. La mia inveterata attrazione per le melensaggini tra le nubi mi ha sciolto senza speranza dinanzi allo struggente sovraccarico di glucosio del singolo Go Away and Come Back Hither - che scomoda il concetto sufista delle anime affini che si conoscono dall’inizio del tempo, nientemeno - ma non sono da tralasciare i tradizionali resi in un modo che non fa rimpiangere un Andy Irvine dei tempi d’oro, specie Her Mantle So Green. Forse gli strumentali soffrono un po’, specie Joyáil, che fa tanto di intitolarsi con un neologismo ma è davvero un po’ troppo risaputa. Molto apprezzabile anche l’estetica del disco, affidata ai dipinti astratti a tema onde (eh be’) di Petrie Lenehan. Nel complesso, comunque, direi di smettere di leggere me e lasciarvi cullare.
How Things Work - Simon Jones
Personaggio poliedrico Simon Jones, essendo sia fotografo che grafico d’animazione che polistrumentista; lo troviamo in quest’ultima veste soprattutto in quanto membro del trio folk britannico Harp & a Monkey, latore due anni fa del delizioso The Victorians, concept album su storie di vita vittoriana a colpi di canzonacce d’epoca. Qui Jones ha lavorato da solo partendo da un altro concept, abbastanza curioso da attrarre di per sé l’attenzione sul disco: i Ladybird Books della Penguin, collana di libri istruttivi per ragazzi famosa nel Regno Unito. Così ecco un tuffo in suoni e stralunatezze molto Seventies con tanto di inserti elettronici (oso intrasentire Delia Derbyshire, perfino; ma in generale più spiccato è l’accodamento al revival stile North Sea Radio Orchestra, o quel che ne resta) al servizio di canzoni sull’origine del computer, le vite di Charles Dickens e Michael Faraday, i viaggi spaziali, cosa fare nei pomeriggi di primavera ed estate e così via. La connotazione etnica così forte restringe molto il campo di interesse, ma seguo il nostro in quanto membro di un gruppo che mi sconfinfera alquanto e l’operazione mi è parsa troppo curiosa per non segnalarla. Provate, potreste appassionarvi.
Music from Grizzly Man - Richard Thompson
Chi mi conosce di persona sa che vivo nascosto. Chi mi ha visto sollevare un po’ la coltre, tuttavia, mi avrà sentito almeno accennare a sir Richard Thompson. Ebbene, se arrivo a tanto, è amore. Una delle figure decisive nel consegnarmi alla croce e delizia della vita da folkster, senza il minimo dubbio.
Il nostro ormai ha una certa, e sebbene sia rinato una buona ventina di anni fa e persino le ultime prove discografiche abbiano energia da vendere a torme di millennialZ lagnosi - eccetto, per me, i due ultimi dischini “da lockdown”, che son proprio delle loffie - le sue ultime mosse evidenziano la volontà di tirare le somme di una carriera lunga e piena. Una è la pubblicazione dell’autobiografia proprio quest’anno, un’altra è la riproposizione della sua seconda incursione nel campo della musica per film (ma la prima di buon riscontro): appunto Grizzly Man di Werner Herzog del 2005, documentario su storia, gloria e caduta dell’ecologista bislacco Timothy Treadwell, che girò l’Alaska spinto dal desiderio di comunione con gli orsi e ne restò travolto, lasciando ai posteri del materiale video di istintiva e sconcertante bellezza. Andai persino a vedere il film attratto principalmente dalla prospettiva di sentirne la musica, e scoprii un’opera sul rapporto uomo-natura che il di poco successivo, e ben più noto, Into the Wild di Sean Penn non avrebbe visto nemmeno con lo Hubble.
Comunque sia, siamo di fronte a una quasi-ristampa della OST, nel senso che è quasi la stessa cosa, salvo che è tutto Richard e quindi la Coyotes di Don Edwards che chiude il film e il disco originale non c’è, sostituita da una traccia di variazioni sul tema principale. Richard si fece dirigere da Herzog stesso e, con gli altri musicisti presenti - si segnala in particolare Jim O’Rourke - in due giorni di jam improvvisative seppe rendere in musica gli umori ctoni del materiale video di Treadwell, alternando materiali quasi didascalici come Foxes (che accompagna la sequenza della volpetta da cui Treadwell si lascia inseguire con un appropriato zampettìo in fingerpicking) ad altri quasi avanguardistici come Corona for Mr. Chocolate. Di struggente bellezza il già menzionato tema principale (nella prima edizione intitolato Main Title, qui Grizzly Man), anche se qui il Richard fece il furbo riciclando un pezzetto della sua vecchia The Knife-Edge (da Strict Tempo!), contando giustamente sul fatto che ce ne saremmo accorti in tre. Da recuperare sia film (specie se non lo conoscete e avete più presente l’altra schifezzina) che disco, che in questa iterazione ha anche una copertina spettacolare.
Per stavolta è tutto, alla prossima! Condividete, amate, ascoltate.