Dischi '22 #7: The Haar; Paolo Angeli; Murmur Mori; Steeleye Span
Tradizionali dilatati, una one-man band e il Mare Nostrum, il cantautorato dei notai d'altri tempi, un grande guilty pleasure in una vita di guilty pleasure
Where Old Ghosts Meet - The Haar
Arriva il sophom secondo disco per una delle formazioni più virtuosistiche dell’attaule generazione dei folkettari dell’isola d’Eriu, con un terzetto strumentale al servizio della voce disadorna e morbida dell’ottima Molly Donnery. Ammetto di non essere stato molto colpito dall’esordio omonimo, che mi parve di prim’acchito noiosetto, e quest’uscita rappresenta per me la concessione di una seconda possibilità. Il gruppo mi ricorda, per contrasto, i già leggendari Lankum (recuperate The Livelong Day se non l’avete già fatto, disgraziati), nel senso che entrambi si sforzano di dare nuova vita a un repertorio molto consolidato, ma con approcci affatto diversi: da un lato l’anima punk, i bordoni agghiaccianti a base di aerofoni e la vocalità collettiva e ruvidissima della formazione dei fratelli Lynch; qui invece uno sviluppo graduale e improvvisativo, più disteso, limpido e percussivo, adagiato al servizio della voce di Molly, che si libra con un bel portamento.
Il risultato? Inaspettato, e mi ha richiesto due ascolti per entrarmi*, ma sorprendente. Nel complesso è da momenti calmi, e rimane altalenante - se Wild Mountain Thyme è in effetti un gran pezzone e c’è sempre bisogno di valorizzare Whiskey in the Jar dopo l’orrore dei Metallica, il senso di farla così lunga su Danny Boy non mi è ancora chiaro -, tutto sommato preferisco ancora la grinta e la follia dei già citati Lankum, ma siamo di fronte a un gruppo di classe, c’ho messo un po’ ma ho afferrato.
* Sì, solo due; ho sempre un’opinione fatta al massimo dopo il terzo, magari soggetta a cambiare nel tempo ma compiuta: se “richiede ripetuti ascolti” e non è avanguardia ungherese, vuol dire che non ti piace ma devi fartelo piacere per ragioni esogene. Per farmi causa, sapete dove trovarmi.
Rade - Paolo Angeli
Dopo solo un anno torna la spettacolare one man band sarda, che fa tutto con la voce e, soprattutto, col suo strumento: la chitarra sarda preparata che fa da chitarra baritono, violoncello e percussioni allo stesso tempo. Se il precedente e bellissimissimo Jar’a incrociava il post-rock all’anima più oscura e riposta dell’isola, Rade cerca di abbracciare l’intero bacino del Mediterraneo, una specie di concept album sulla navigazione nel Mare Nostrum. Oltre a un uso più consapevole ed esteso della voce, che riprende timbri (e versi) dalla tradizione gallurese e logudorese, abbiamo un pastiche formale quasi stordente, coi balcani, l’Iberia, il nordafrica, il rebetiko, persino il prog in una sintesi che sembra debba sfaldarsi da un momento all’altro e non lo fa mai. Non c’è nemmeno da consigliare un brano, è da spararselo tutto, e restare esterrefatti dopo pensando che è fatto tutto da un solo uomo con un solo strumento, le sovraincisioni essendo presenti solo nella prima traccia Ottava. Mirabile.
Dançando la fressca Rosa - Murmur Mori
Graditissimo ritorno dell’ensemble medievaleggiante di Mirko Volpe e Silvia Kuro, che già mi allietò appena lo scorso anno col bel Concerto a Mortorano, registrato in presa diretta. Qui abbiamo un altro spasso già ben descritto dal loro comunicato ufficiale, che volentieri riporto.
“I Memoriali Bolognesi furono scritti da notai e contengono ballate e rime che rappresentano tra le più antiche testimonianze di poesia in volgare, come quelle contenute nel manoscritto Vaticano Latino 3793. La maggior parte di queste poesie furono scritte per essere cantate e suonate ed infatti, anche se sono arrivate a noi senza notazione musicale nei manoscritti, hanno spesso indicazioni testuali che attestano la loro forma musicale. Abbiamo musicato queste liriche utilizzando riproduzioni di strumenti medievali, fondendo l'eredità della musica popolare italiana assieme alle fonti manoscritte della musica secolare del Medioevo, per riscoprirne il suono e la musicalità ed evitare che rimangano confinate in studi letterari. La musica qui presentata si concentra sulla poesia giullaresca dei secoli XIII e XIV e sulla forma musicale della ballata. Canzoni d'amore, di satira e per danzare.”
[Riedizioni in box] Good Times of Old England: Steeleye Span 1972-1983 - Steeleye Span
Ogni tanto succede. Dopo oltre 50 anni ancora sventola l’insegna degli Steeleye Span, uno dei gruppi fondati da sua maestà Ashley Hutchings, l’anima in pena che tra anni ‘60 e ‘70 girava il Regno Unito e fondava gruppi capitali del folk revival per poi abbandonarli. Dopo una prima infilata di dischi formidabili il gruppo vede appunto la defezione del fondatore e passa stabilmente sotto la guida della gran signora Maddy Prior, il soprano più ruvido del West (che io, sia ben chiaro e scolpito nel marmo, amo incondizionatamente) e del suo cavalier servente Tim Hart, poi costretto al ritiro da una malattia che ce lo avrebbe tolto nel 2009. Gli Span sono storicamente ricordati come “i rivali dei Fairport Convention”, caratterizzati da una minore attitudine rock - e nel complesso, da minori doti strumentali, quel che è giusto è giusto - e da una superiore consapevolezza folk, oltre a una maggiore attitudine nello svelarne i lati più oscuri, il che li rese latori di mille trovate pazzerellone, di pezzi obliqui, scazonti, oscuri, ruvidi, bizzarramente distorti e congegnati, che sono valsi al gruppo il mio disperatissimo e riposto amore sin dalla gioventù. Qui parliamo di un boxone che arriva a una decina abbondante di anni dall’ultimo e che copre, immagino per le solite faccende di diritti, la seconda fase del gruppo, quello del contratto con la Chrysalis, del consolidamento della fama, della prima grande crisi e del primo scioglimento.
Si parte col quarto disco della band, e primo del “dopo Hutchings”, il leggendario Below the Salt, che vede quella che per molti è la formazione storica, che oltre a Maddy e Tim comprende il violino di Peter Knight, la chitarra dalle distorsioni cornamusose di Bob Johnson e il basso martellante di Rick Kemp. Seguono il non inferiore Parcel of Rogues, poi il meno riuscito ma-comunque-avercene Now We Are Six che, come suggerisce il titolo, vede la reintroduzione della batteria in pianta stabile nella persona di Nigel Pedrum, e un altro colpo da maestro con Commoners Crown. I dischi successivi guadagnano in presa commerciale ma perdono in estro, risultando lavori complessivamente modesti seppur punteggiati di colpi di genio. All Around My Hat è tristemente noto per la smash hit omonima, che mi becco in qualunque live e salto sempre, ma colpisce con gli intrecci vocali di The Wife of Ushers Well e le assurde, meravigliose enfasi orchestrali dell’inno MGTOW Batchelor’s Hall; Rocket Cottage sarebbe una paraculata coi fiocchi senza una gemma percussiva, quasi un rap-folk, come Fighting for Strangers; e poi, e poi - e poi non ci siamo più, salvo che per l’ottimo Live at Last!, con un’effimera formazione che vede il ritorno del Grande Vecchio Martin Carthy - che c’era anche agli albori - e la fisarmonica della leggenda vivente John Kirkpatrick. Le masterizzazioni sono le stesse del 2009, ma abbiamo un po’ di tracce extra e versioni alternative - particolarmente interessanti sono le aggiunte a Live at Last!, con una preziosa esecuzione della storica Cam Ye O’er Frae France - e soprattutto ci sono tre live inediti che arrivano fino al ‘76, registrati così così ma capaci di testimoniare che, a dispetto delle difficoltà, gli Span dal vivo erano sempre una garanzia, e che è stato questo, nonostante tutto, a far sì che la fiaccola arrivasse a oggi.
Oggi gli Span hanno una formazione estesa, più giovane, sempre instabile e quasi del tutto stravolta, in attesa di fatto che la Maddy finisca le cartucce; ma capace nell’ultima decade di dischi, se non memorabili, di certo freschi e spassosi come al gruppo non riusciva da tempo - così che ha festeggiato il cinquantennale nel ‘19 con un ottimo colpo come Est’d 1969 e uno scoppiettante live a seguire. Me ne allieto e non posso che raccomandare un’orecchiata a questo box, testimonianza di una band che, contro i giudizi di chi conta e in spregio alle catene del buon gusto, ho sempre serbato nel mio fagotto mentre percorrevo la via solitaria del folkster, incompreso e contento così. Viva gli Span!