Dischi '22 #9: Yorkston / Thorne / Ghatak; Nebula; Pumajaw; Les Fils Canouche
Ibridi sufi e franco-gitani, il rock degli anni Zero, concettualità elettronica e ricordi di cose perdute
Yorkston / Thorne / Ghatak live EP - Yorkston / Thorne / Ghatak (2022)
EP dalla genesi strana, questo. Il prolificissimo folkettaro caledone James Yorkston, tra le altre cose, fa parte del trio Yorkston / Thorne / Kahn assieme al contrabbassista Jon Thorne e al cantante e suonatore di sarangi Suhail Yusuf Khan. I tre diedero il loro considerevole contributo a quell’intersezione post-coloniale di musica britannica e indiana (più precisamente Sufi, nel nostro caso), memore dei tentativi del Grande Vecchio Asceso John Renbourn, che mi picco di considerare forse la tendenza più interessante, e potenzialmente redimente, nell’attuale panorama musicale dell’Impero in disfacimento più famoso del mondo. Il trio tocca l’apice nel 2020 con quella gemma rarefatta di Navarasa : Nine Emotions, delicata panoramica sulle nove emozioni dell’arte che prende delle canzoni tradizionali per stravolgerle, sfilacciarle, dilatandole e dipanandole in un arazzo sonoro ampio, cullante, completamente diverso.
Ebbene, ora che si può andare in tour per Khan sorgono problemi di visti, e i due rimasti lo sostituiscono in corsa con Ranjana Ghatak, luminosa cantante di musica classica indiana, che qui ci mette anche tanpura e harmonium, l’ormai fondamentale organo ad ancie che mi comprerò appena sarò ricco. L’EP documenta uno stralcio di concerto fatto con questa nuova formazione, in presa diretta e senza alcuna post-produzione. Il suono casereccio che ne risulta, insieme alla delicatezza della nuova interprete (che stravolge e dà un nuovo senso in particolare alla vagamente ossessiva Westlin Winds, vero pezzo da novanta del disco originale) trasporta l’ascoltatore nell’atmosfera del live senza sforzo. Se in futuro fanno qualcosa con una formazione a quattro… ah, oso sempre sperar troppo.
Atomic Ritual Repress - Nebula (2003, ristampa 2022)
Questo e il prossimo mi fanno ripensare ai Naughties, lo strano decennio del mio ritiro. Dopo i primissimi anni caddi in uno strano limbo in cui non volli e non seppi più essere sul pezzo per molti anni; in musica mi buttai a pesce sul recupero del passato - fu allora che divenni folkettaro definitivamente e senza speranza a forza di classici - e a parte alcune cose main- e mid- stream (col secondo che si avviava al comatoso stato attuale) non ci stetti più dietro. Alla fine del decennio, poi, la crisi economica si intersecò perfettamente con quella personale, e il resto è storia di cui non c’è molto da raccontare. Diciamo che è solo da qualche anno che la mia passione corre di nuovo, realmente, a briglia sciolta, dopo esser passata per il canto e l’approfondimento della musica corale da cui tanto altro discese. Ma inclino pochissimo alla nostalgia e molto di più alla melanconia - intesa proprio come la nostalgia di quel che non è stato -, credo che questo sia comune a tanti musicofili, e va bene così.
Fu così che persi i Nebula, una delle creature del produttore Chris Goss, quello di quei Queens of the Stone Age che, invero, non mi presero mai una mazza. I Nebula - che fecero, a quanto pare, il botto appunto col terzo lavoro, questo Atomic Ritual del 2003 ora riedito - invece avrebbero forse saputo introdurmi prima di quanto avrei poi fatto allo stoner e allo space rock, ad oggi parte di quel non molto di rock che ancora posso apprezzare. Davvero un peccato per i vari inserti di hard rock che, persino in un contesto di qualità come questo, risulta la mia kryptonite senza rimedio. Simpatica riscoperta, ad ogni modo.
Scapa Foolscap - Pumajaw (2022)
Per i motivi sopraddetti mi persi completamente gli scozzesi Pumajaw, che avevano se non tutte, molte carte in regola per restarci sotto: elettronica e psichedelia sapientemente mischiate, estro pop angoscioso, e Pinkie Maclure col suo registro di contralto - ovvero il registro più bello che c’è, seguito dal mezzosoprano e, tanto sotto, dal baritono che la sorte mi ha donato - sarebbero stati un deciso “sì, grazie”. E invece niente, li scopro oggi con un disco che arriva a distanza di otto anni dal precedente. Va bene così, e non posso che commendare anche i videoclip concettuali che accompagnano tre dei pezzi più notevoli (per me spiccano l’angosciosa e solinga Murmurised e il trip-hop ritrovato di Local Envy) nonché la grafica del disco a cura di tale Stefano Piacenti, che mi era proprio sconosciuto.
Nagori - Les Fils Canouche (2022)
Interessante quartetto francese che propone un pastiche in salsa gitana, fatto di generi da ballo eseguiti con maestria e uno spirito a tratti swing, che, come dichiarano loro stessi, incontra tanto Astor Piazzolla quanto il jazz chitarristico europeo di un Django Reinhardt. Ibrido anche il set strumentale, con sezione ritmica jazz e il clarinetto come principale strumento solista, ma anche chitarra da flamenco e fisarmonica diatonica a tenere bordone. Non manca in questo caso anche il Mediterraneo grazie all’oud (della famiglia degli liuti) del palestinese Hussam Aliwat, con cui il gruppo dà vita a quelli che sono senz’altro i brani del lotto in cui c’è di più e meglio miscelato. Il tutto è un filo troppo “da sala” per i miei gusti, e mi sembra cascare un po’ troppo in quella sorta di sanitizzazione così tipica del jazz europeo, con tanta maestria e meno energia - ma comunque il lavoro è notevole, anche solo per come ne ha davvero per quasi tutti.