Dischi '23 #1: Jordi Savall & co.; The Cure; Eliza Carthy & The Restitution
Tremate, tremate, i dischi son tornati
Che dire? Rieccoci con un trittico per avviare il secondo anno di newsletter. Per il seguito, sono uscite e sono già in uscita così tante figate da sentirmi soverchiato, mi trovo in serio imbarazzo nello stabilire che cosa coprire prima. Ma lo supererò, tranquilli.
Ma cominciamo, senza porre altro tempo in mezzo.
Codex Las Huelgas: Bestiaire et Symboles du Divin 1300-1340 — La Capella Reial de Catalunya; Jordi Savall; Hespérion XXI (Alia Vox, 2022)
L’infaticabile Savall (ormai quasi novantenne!), verso la fine dello scorso anno, ha donato al mondo una perla delle sue: coi suoi ensembles di fiducia, La Capella Reial de Catalunia e lo Hespérion XXI, ha dato altro lustro alla tradizione esecutiva della musica antica, come se il suo contributo alla causa non fosse già colossale. Non siamo di fronte a uno dei suoi dischi sincretistici, estesi nel tempo e nello spazio, bensì all’esecuzione di materiale tratto dal Codice Las Huelgas, manoscritto di inizio Trecento custodito a Burgos, precisamente una selezione di 11 brani sui 186 presenti nel codice. Il risultato sorprende, oltre che per l’esecuzione sempre eccelsa, per una certa dimensione diacronica, nonostante tutto, dell’insieme (dall’inizio alla fine possiamo percepire l’evoluzione del linguaggio della musica medievale lungo decenni e decenni, con alternanza di prose, organum e mottetti) che testimonia come le musiche riuscissero a viaggiare anche in quel contesto, con ben altre tecnologie di comunicazione rispetto a oggi — quasi una testimonianza sonora del medioevo più affascinante, quello che seppe creare una cultura articolata e vertiginosa pur in un regime di cronica scarsità.
La selezione non manca però di una sua unitarietà tematica, suggerita dal titolo: i brani sono a tema bestie; naturalmente, vista l’epoca e il contesto, viste nella loro dimensione simbolica. Nell’ascoltatore moderno questo genera uno straniamento, con un repertorio palesemente sacro ma dai rimandi insoliti e non sempre afferrabili. Tra i brani raccomando l’affascinante esordio Iocundare plebs fidelis cuius Pater est in celis, l’estesa Virgo sidus aureum, la sorprendente modernità dell’incalzante Alpha bovi et leoni, ma sono indicazioni di massima in un lavoro da godere per intero. Fascinoso, arcano, e davvero squisito.
Wish (30th Anniversary Edition) — The Cure (Ims Polydor, 2022)
Sebbene un po’ fuori tempo massimo — essendo io un millennial vecchio e debitamente reazionario, con una testa più da X-er — ebbi la mia fase darkettona: mai tradottasi nel vestiario (da quel punto di vista, optavo sempre per il massimo anonimato) e comunque inquinata da un passatismo che mi rese accanito progster, per non dire dei semi del culto folkettaro che mi avrebbe avvilluppato in seguito (assente ingiustificata la psichedelia; strano visto quello che consiglio ora, ma così fu). Dovendomi proprio schierare un minimo non potevo che pormi in antitesi con l’hard rock, peraltro morto e sepolto, e con gli orrori del pop punk, ahimè allora ben più vivo; né avevo testa per corteggiare seriamente il metallo, per quanto mi piacesse più che qualcosa, per non dire poi della selva di guilty pleasure dovuti a una già sviluppata propensione al melenso. Quindi, per esclusione, darkettone fu, a dispetto di lacune come l’incapacità di farmi piacere dei mostri sacri come i Joy Division (ci provai sul serio, giuro! ma niente). La croce e la delizia di crearsi dei parametri estetici con le sole proprie forze e senza dei pari da imitare, immagino.
Con l’ossessività che mi contraddistingueva allora, un po’ per volta mi feci la discografia dei Cure, con una partenza peraltro insolita: l’ultima uscita di allora, il confuso ed erratico Wild Mood Swings del 1996, con un tocco di grunge qui, uno di latino lì, e una mancanza di direzione pressoché totale, e che tuttavia non mi scoraggiò, grazie all’inesperienza e al nuovo impulso datomi in seguito da Galore, la raccolta dell’anno successivo con tutti i singoli del decennio precedente. Andando avanti fui preso soprattutto dal primo periodo, quello del terzetto post-punk e tenebroso con Robert Smith, Lol Tolhurst e prima Damien Dempsey, poi Simon Gallup; ma riuscii nondimeno a ricostruire l’evoluzione del gruppo in fenomeno pop ottantiano, man mano che Tolhurst si ritirava e Smith faceva del gruppo una backline dal discreto tasso di riccardonesimo al servizio della sua visione. Visione, bisogna dire, intelligente e astuta, con un pop-rock languido, melanconico e addizionato di qualche brivido, ma di fondo anche rassicurante, dalla non vastissima gamma sonora ma sempre ben eseguito (il gruppo è sempre rimasto solido come granito nella resa dal vivo) e sostenuto, soprattutto, da una scrittura solida e da un gusto nell’arrangiamento realmente sopra la media: arrivati a oggi, chi ha nostalgia del mainstream anni '80 ed è un minimo onesto con sé stesso riconoscerà facilmente che Just Like Heaven da sola si divora l’intera discografia di Duran Duran, Spandau e consimili cialtr fenomeni di costume. Per non dire di un disco concettoso e (fin troppo) denso, nonostante tutto, come Disintegration.
Arrivando a Wish, erano già iniziati i criticissimi primi anni '90 e, se ben si sente un colpo di coda, si avverte altrettanto l’inceppamento del meccanismo: l’opera risulta profondamente disorganica, con la hit trainante Friday I’m in Love che si adagia a essere di fatto una filastrocca, e d’altra parte ottimi momenti come la strappacuore A Letter to Elise (melensa finché si vuole, ma è il genere di cosa che l’intero movimento emocore si è sognato la notte di produrre), l’estesa e vagamente lovecraftiana From the Edge of the Deep Green Sea, la desolata ballata d’amor perduto Apart abbinata alla più speranzosa Trust, e la melanconia di To Wish Impossible Things, dai contorni world (ah i Nineties…) e con inserti di viola. Se non che, tolte queste, c’è una buona metà del disco fatto di robina e robetta senza sapore; e ad aggravare il tutto ecco la tendenza, allora nascente, di cercare di vendere il CD “riempiendolo” e tirandola troppo in lungo.
Di lì a non molto il guitar hero Porl Thompson se ne sarebbe andato per fare il turnista per Page & Plant e il gruppo avrebbe perso la trebisonda; se Bloodflowers del 2000 è un recupero delle vecchie atmosfere con momenti anche riusciti, è ancora più piagato dalla già accennata prolissità del periodo senza che le idee presenti possano bastare; quanto ai tentativi successivi di adagiarsi al “suono Naughties” e alla compressione selvaggia in sede di missaggio lascio la parola al gruppo stesso, che ha chiuso la questione con un’infilata di tour all’insegna del ricordo dei tempi d’oro.
Venendo alla riedizione in sé, essa ha il pregio enorme di rimediare all’altro serio problema del disco originale, ovvero l’essere masterizzato un po’ col fondoschiena; per il resto fa quello che ci si aspetta da queste pubblicazioni superlusso, con una pletora di remix di cui non capisco il senso quasi mai e un’infilata di demo ben più interessanti nel testimoniare del processo creativo di un gruppo, con tanti brani abortiti ma contenenti ideuzze udibili nel prodotto finito. Raccomandato ai collezionisti dei Cure, ma suppongo sia un po’ pleonastico a dirsi.
[4 EP] Queen of the Whirl — Eliza Carthy and The Restitution (Hem Hem, 2022)
Non ha bisogno di presentazioni Eliza Carthy, vera e propria principessa del folk britannico — sia per risultati che per nascita, essendo figlia dei Grandi Vecchi Martin Carthy e Norma Waterson, assieme ai quali esordì in una formazione poco sorprendentemente chiamata Waterson:Carthy. Ma di queste cose vi ho fatto cenno scrivendo dei Watersons, e tanto basta.
Fatto sta che nell’anno appena trascorso la nostra ha pensato di festeggiare il trentennale della sua carriera con quattro EP di riesecuzioni di brani del suo repertorio, per un totale di una quindicina di brani, riuniti sotto il titolo collettivo di Queen of the Whirl. Insomma la principessa si proclama regina, con un riferimento al primo brano della raccolta, la scoppiettante Whirly Whorl, e con tanto di gruppo personale, appunto The Restitution (di cui non si trova la formazione online neanche pagando, a testimoniare di come Eliza li tiene sotto il calcagno).
Veniamo subito al sodo: il gruppo è davvero ottimo, con una solidità sonora e una capacità di adeguarsi ai generi notevoli, il violino della titolare pure; e la raccolta uno spasso, con un folk rock solido, maturo e pieno di scabrosità squisitamente British, che si dipana in mille trovate — si segnalano dei tradizionali eseguiti in lungo e in largo come The Snow It Melts the Soonest e un’incalzante Jackie Tar, una bizzarria di Ewan MacColl e Peggy Seeger come Space Girl, la Stumbling On di zia Lal Waterson, e persino incursioni latine, come il calypso di Good Morning, Mr Walker (in origine di Mighty Sparrow, il grande cantante di Trinidad, poi portato alla fama locale da una versione di mamma Norma) e un momento piuttosto debole come Mr. Magnifico, che immagino vorrebbe sembrare buffa ma boh. Non mancano i brani originali, come il divertimento da music hall e vagamente progghettaro di Blood on My Boots (che dà il titolo al terzo EP; quello dalla copertina più bizzarra, con Eliza in versione sirenetta tettona nella vasca da bagno).
Il lavoro in generale riflette la consapevolezza dell’artista, testimoniata anche dalla sua progressiva perdita di freni inibitori (a partire dai capelli turchini, proseguendo con quella mattana autocelebrativa e sfacciatamente trash del video di Good Morning, Mister Walker); e non si può darle torto, specie alla luce dei suoi risultati anche come produttrice (avendo spinto un vero portento del folk contemporaneo come Angeline Morrison, di cui pure vi ho scritto). La verve dell’opera risulta però azzoppata dalla sua natura eminentemente celebrativa, e di conseguenza da un approccio al materiale sì grintoso, ma anche conservatore: ascoltandolo ci si imbatte in una sorta di summa del folk rock, con echi settantiani innegabili, e che da queste parti certo non spiacciono… ma nemmanco si sente un passo avanti: per quelli bisogna guardare altrove. Date comunque un’orecchiata se apprezzate il genere, o anche se volete scoprirlo e vi serve un bignami.