Dischi '23 #2: Stile Antico; James Yorkston, Nina Persson & The Second Hand Orchestra; Jake Blount
Folk in tutte le salse, maestri della polifonia, e di come vinsi il premio come Sveglione del Secolo allorché imparai a mettere i nomi degli artisti nel titolo
The Golden Renaissance: William Byrd — Stile Antico (Decca, 2022)
Proseguiamo con della gran musica antica. Questa volta le composizioni sono del maestro rinascimentale William Byrd, famoso per i mottetti in latino di impronta cattolica, composti per il compiacimento della Bloody Mary. Proprio i mottetti, assieme alle messe, sono protagoniste di questo bel discone, una di diverse pubblicazioni uscite in previsione del quattrocentenario della morte di Byrd, che cade quest’anno (da segnalare anche l’uscita dei prolificissimi The Sixteen, incentrata sul repertorio profano in inglese).
Per chi non li conoscesse, gli Stile Antico — dal nome quantomai didascalico per indicare il repertorio preferito — sono un premiatissimo coro britannico di dodici elementi (esattamente tre per sezione) specializzato nell’esecuzione senza direzione, coi membri disposti a cerchio o semicerchio che si coordinano da sé. Non sembri così strano; era anzi cosa prevista all’epoca, come anche le improvvisazioni imitative a partire dalle linee melodiche (usate abbastanza liberamente come canovaccio); e persino un maestro come Josquin Desprez era cantante a sua volta e improvvisava assieme ai sodali sulle proprie composizioni, la partitura essendo da intendersi più come una registrazione che come un’indicazione da seguire rigidamente (sulla discrezionalità di cantanti e strumentisti nel contesto della musica colta, molto stiamo ancora riscoprendo).
Che dire del disco? Il titolo Golden Renaissance è quello di una collana di pubblicazioni di cui questa è la seconda uscita, preceduta da una raccolta su nientemeno che Josquin. Per il resto le esecuzioni sono formidabili, il gruppo è di una coesione e colore straordinari, e le imitazioni così ben cesellate da Byrd sono sempre ben marcate e deliziose da seguire. Se volete apprezzare un po’ di Rinascimento musicale, o anche scoprire quanto è particolare e diverso da quanto venuto dopo, raccomando di tenerli molto d’occhio.
The Great White Sea Eagle — James Yorkston, Nina Persson & The Second Hand Orchestra (Domino, 2023)
Il prolificissimo James Yorkston apre un progetto dopo l’altro: oltre al già da me elogiatissimo terzetto Yorkston / Thorne / Khan — incentrato su un incontro fragile, quasi improbabile, eppure fecondissimo tra folk e canone Sufi —, il poeta caledone illuminò il mio 2021 musicale col formidabile The Wide, Wide River: l’incontro con la svedese Second Hand Orchestra, collettivo che fa capo a Karl-Jonas Winqvist, fu estemporaneo, il nostro essendosi presentato alle registrazioni con un canovaccio dei pezzi che il collettivo non aveva mai sentito prima. Una jam session con questi presupposti fu quanto servì per un disco del folk d’autore più colorato, variegato e di più largo respiro; proprio un ampio, gonfio fiume, un vero carosello di melanconia e struggimento, nonché la testimonianza di un artista che trova sempre il modo di rinnovarsi anche al ventesimo (e passa) anno di attività (segnalo altresì la rielaborazione di parte dei brani curata dall’orchestra da sola, di cui vi scrissi qui).
Questo progetto nasce su presupposti simili, ma con un’aggiunta: la voce di Nina Persson, che molti della mia generazione conosceranno come la gnocca dei Cardigans. Così che questo nuovo disco, rispetto al precedente, è impreziosito da un intreccio di voci, quando non da un’alternanza (il tutto si apre con la struggente Sam and Jeanie McGreagor, cantato dalla sola Persson) che lievita a partire da una scrittura più dolceamara, posata e fine rispetto al disco precedente, fatta di rimpianti, piccole amarezze legate al tempo e cure genitoriali; risultando in brani più lenti e sommessi e dall’attitudine più pop, con la Persson che addolcisce dovutamente la ruvidissima emissione vocale dello Yorkston. Il risultato, almeno per me, conduce a un curioso effetto subliminale, un ingresso sottopelle dei brani, che al primo ascolto non sembrano dirmi granché salvo poi ritrovarmi a canticchiarli per la strada [1] rendendomene conto a stento.
A dire il vero, sia il disco precedente che le bizzarrie del trio con Thorne e Khan sono più di mio gusto, e dal disco mi giunge un’attitudine vagamente salottiera — nondimeno è un piacevolissimo strappacuori; e non posso non sostenere che, in un mondo più giusto, pezzi come i duetti colmi di rimpianto di The Harmony e Mary, la romanticheria sostenuta di Hold Out for Love, il bolero rock di Peter Paulo Van Der Heyden e l’ostinata The Heavy Lyric Police sarebbero delle hit radiofoniche di un certo livello. In complesso, Pel di Carota mi ha fregato anche stavolta.
Per chiudere, non perdete i piccoli live qui sotto, che fanno apprezzare ancor meglio l’affiatamento del collettivo.
[1] Chi scrive è un milanese che passeggia con aria tendenzialmente serena e, sovente, cantando: in pratica un vero cerchio che è anche un vero quadrato.
The New Faith — Jake Blount (Smithsonian Folkways, 2022)
Dopo lo sfolgorante debutto Spider Tales del '20 (mancato a suo tempo con la pirlaggine che mi è propria), una straordinaria ricerca sulle origini afroamericane del bluegrass capace di portare avanti il discorso che fu dei Carolina Chocolate Drops, torna questa promessa dell’Americana con — di nuovo! — un concept album maturato ai tempi del lockdown, stavolta anche col patrocinio di un ente, la Smithsonian Folkways’ African American Legacy.
Jake Blount, polistrumentista (molto poli, tanto da suonare il grosso delle parti in studio, ma con preferenza per fiddle e banjo), studioso in campo etnomusicologico e talento millennial ancora giovane (classe 1995) di Providence, è considerato padre della corrente musicale dell’Afrofuturismo, tesa a riscoprire la tradizione afroamericana, distillarla dalla musica presente e proiettarla verso il futuro. Il concept del disco si basa proprio su questo presupposto, venandolo di preoccupazioni ambientali: tramite un canovaccio affidato a tre recitativi (la preghiera associata a Take Me to the Water, proprio in apertura, Parable a metà disco e Psalms a due terzi), Blount ci proietta nella futura Terra surriscaldata e prova a immaginare il nuovo spiritual che germinerà dalla consapevolezza di allora. Il repertorio si compone di spiritual codificati appunto, ma sottoposti a una sapiente opera di riarrangiamento dal nostro, che vi mescola bluegrass, hip-hop (con l’apporto di Demeanor, in The Downward Road e Death Have Mercy), groove esotici (l’incalzante Once There Was No Sun), e rhythm’n’blues (la rabbiosa ed elettrica Didn’t It Rain con solo di diavoletto), per una resa scabra, tesa ad esaltare voci, ritmi e accenti, spesso facendo spiccare un solo strumento alla volta, ma nondimeno affascinante.
Sono pur sempre un reazionario barbogio dentro e ammetto di non riuscire a connettermi completamente col tipo di sensibilità qui dispiegata, con una commistione di pietismo e ambientalismo squisitamente millennial e che sento lontana; ma non posso che inchinarmi di fronte all’intelligenza musicale e alla vitalità che pervadono l’operazione, nonché al talento bruto di quest’uomo. Il folk vive, pulsa, e avanza come e più degli altri filoni; se lo conoscete, lo sapete.