Dischi '23 #3: Anna Mieke; Eoghan Ó Ceannabháin; One Leg One Eye
Appuntamento tutto ibernico, perché non si dimentichi con chi avete a che fare
Theatre — Anna Mieke (Nettwerk, 2022)
Iniziamo dalla seconda prova di Anna-Mieke Bishop, in arte Anna Mieke da Wicklow, tre anni dopo la prova un po’ acerba (il che non scusa il mio averla persa allora) di Idle Mind, esordio con cui la nostra metteva il suggello al precedente lavoro nel campo della biochimica e mostrava le sue caratteristiche musicali: una caratteristica voce liquida e sottile; polistrumentismo (chitarra, piano, violoncello ma, soprattutto, bouzouki; preferendo quello greco, non quello ricostruito in Irlanda); un complesso di ispirazioni tirato tra le scuole di John Martyn e — oso fare tal nome! — Nick Drake; e un’attitudine al pattern ipnotico e alla costruzione di pezzi quantomai cullanti, delle serie di increspature fatte di continui pizzicati su cui la voce si libra per riferire racconti d’infanzia, frammenti esperienziali, sequenze trasognate, in un clima rarefatto ma ancora terreo, non etereo che per carità, lungi da me. Il tutto con una sottile ma palpabile attitudine mediterranea, complice il passato da giramondo dell’artista, che si è fermata a lungo specialmente in Spagna.
Theatre conferma queste qualità e le porta a maturazione, con una rassegna di scenette musicate rette, si diceva, sullo sviluppo di brani fatti di pattern ossessivi da cui emergono continuamente microvariazioni ritmiche, inserti estemporanei, crescendi smorzati e note sospese — il gruppo consta di tre membri fissi (la stessa Anna, Matthew Jacoboson alle percussioni, Ryan Hargadon a sintetizzatori, piano e inserti di ottoni) e di ospiti occasionali, fra cui si segnala soprattutto, a mio avviso, Brían Mac Gloinn, alias il 50% dei miei amatissimi Ye Vagabonds. Qualcuno potrebbe apprezzare l’estrema coerenza dell’insieme, qualcun altro infastidirsi della mancanza di varietà e di come quasi ogni pezzo sembri sulle prime un avvitamento su un’idea centrale piccola piccola, variata per lunghi gradi; sta di fatto che il disco scorre con un affastellamento di immagini e memorie, di brividi e sussulti che accompagna morbidamente l’ascoltatore fino al termine, turbandolo sotto sotto. Se devo segnalare dei pezzi credo che primeggino la conturbante e alalica For a Time, il viaggione scazonte di Seraphim e il bizzarro cantautorato para-mediorientale di Go Away From My Window. La Mieke arriva sottopelle, ma arriva, e la aspetto per qualcosa di ancora più compiuto.
The Deepest Breath — Eoghan Ó Ceannabháin (2022)
Avevo già detto di questo signore, baritonale e caldissimo cantante di sean nós del Connemara, a proposito di Solas an Lae / The Light of the Day, ottimo e scarnissimo disco realizzato in tandem col violinista Ultan O'Brien del '20. Quest’ultimo lavoro da solo si inserisce nel fecondissimo filone della rielaborazione contemporanea dello sean nós, portato avanti da anni da un maestro del genere come Iarla Ó Lionáird e, sempre l’anno passato, dall’ottimo esperimento di Inni-K, Iníon, di cui pure vi ho raccontato.
Qui troviamo un approccio diverso da quello di questi ultimi due: intanto è nettissima la prevalenza di brani originali, con un intento espressamente espansivo del canto tradizionale a partire dall’alternanza linguistica (ci sono brani in inglese, oltre che in irlandese); in secondo luogo, Ó Ceannabháin si inserisce nella linea futuribile e rumorista che è già stata dei Lankum e, forse avvicinandovisi di più, di quel debutto coi fiocchi che è I Would Not Live Always di uno dei migliori emergenti dell’isola d’Eriu, quel John Francis Flynn che peraltro presta qui la sua chitarra. Rispetto a quest’ultimo qui abbiamo una produzione più pulita e sontuosa (anche più convenzionale, è giusto dire) e una gamma sonora più ampia, garantita da un plotone di strumentisti al servizio dell’operazione che fanno sentire di tutto e di più (lo stesso titolare assicura i bordoni con più strumenti, non ultimo la concertina); manca invece un po’ quella dimensione perturbante, in favore di un cantautorato più familiare, al servizio di una concezione ben precisa da parte di Ó Ceannabháin, che vuole parlare dell’attacco in corso all’arte e ai sogni, di collettività e condivisione, contro le ambizioni individualistiche alla moda che pretendono di ignorare il peso delle condizioni di partenza e trattengono la solidarietà umana (a questo è ispirata la title track, composta dall’artista dopo aver appreso della morte di una donna senza tetto che non si fece proprio niente del “potere della volontà” e del “potenziale da realizzare” che sono l’ultimo grido). In episodi quali Dublin City Fever Dream e Ringing That Bell (cover da Rob Corcoron) sento persino l’eco di Christy Moore, con un richiamo che mi pare esplicito persino nell’uso della voce. A parte questi spiccano Only the Earth coi suoi richiami delle balene (effettivamente campionate per il brano, non me l’invento io), il trad ostinato e oscuro di Anáil na hOíche, la galoppata di Embrace the New Day, il ritorno alla voce sola con la tradizionale Róisín Dubh e la lunga coda della conclusiva Bánshoilse. Tutto il disco è solidissimo e offre quasi un carosello del folk ibernico di oggi, impreziosito dalla voce profonda e duttile del titolare, sia cavernosa che sottile secondo opportunità. Direi che forse non turba né sfida quanto le prove degli altri artisti citati, ma consolida i risultati della scena e, comunque, va giù d’un fiato. Bello, e quest’è.
.... And Take The Black Worm With Me — One Leg One Eye (Nyahh, 2022)
Concludiamo col disco più peso del lotto: dietro al nome d’arte One Leg One Eye si nasconde nessun altro che Ian Lynch, piper dei Lankum (sempre loro!) che qui si lancia in un esperimento personale. Al di là della sua attività di musicista Ian è anche etnomusicologo (o simili, comunque c’ha un dottorato da quelle parti) e si è dedicato a lungo alla raccolta delle rese più assurde del repertorio tradizionale — per averne un saggio non posso che consigliare il suo podcast Fire Draw Near, da cui è scaturito un omonimo disco antologico, buon rappresentante dell’annata '21 folkeggiante.
Insomma, a forza di cercare stranezze e di non potersi esibire negli anni passati a Lynch è presa la mano e, complice la lunga pausa del gruppo d’appartenenza, eccolo dedito a un’incursione nell’elettronica e in ispecie del drone. Il risultato è un’opera post-rock e ambient inquietante (la presentazione ufficiale tira dentro financo il black metal della seconda ondata; e se sonoramente parlando il paragone può reggere, qui tutto mi sembra tutto fatto con troppo più criterio), da sentire al buio, possibilmente senza cuffie, per immergersi nell’inquietudine che evoca, sia grazie ai continui sonori che ai campionamenti della voce agra e metallica dello stesso Ian. Di folk ci sono eco tematiche piuttosto che formali — Bold and Undaunted Youth sarebbe una tipica canzone di brigantaggio se, come dire, fosse fatta in un altro modo; I’d Rather Be Tending My Sheep è poi un tradizionale pesantemente arrangiato, scelto per il tema che esalta la vita ritirata — e il tutto si dipana come un’estesa testimonianza di disagio, salvo tornare alle origini con la conclusiva Only the Diceys, uno pseudocountry lo-fi che rimanda a certi struggimenti dei Pogues.
Il risultato è nell’ordine del “raccomandato agli amanti del genere”, e io alla fine lo sono abbastanza. Apprezzabile soprattutto a scopo divulgativo, per istruire su come si fa del buon drone qualche vostro amico che è rimasto preso nella rete dei Sunn 0))) o boiat controverse operazioni simili.
Avendo atteso tanto dalla sua uscita per sentire bene il disco e raccontarne, direi che ho fatto bene: ai tempi mi amareggiava per un motivo esogeno, nel senso che temevo ci sarebbe costato un’attesa più lunga dello sperabile per il ritorno dei Lankum. E invece no, tornano a marzo: o tripudio!