Dischi '23 #5: Fantastic Negrito; Nick Hart; Philippe Jaroussky, L'Arpeggiata e Christina Pluhar
Rifacimenti acustici, collaborazioni volute dal cielo e il folk isolano più scabro
Grandfather Courage — Fantastic Negrito (Storefront, 2023)
Nel mio piccolissimo avevo già scritto di White Jesus, Black Problems di Fantastic Negrito, il musico adottato da Oakland che ci aveva deliziati l’anno scorso proprio con quel concept sulle sue origini e sul meticciato in senso più ampio, con la storia di due suoi avi raccontata attraverso un carosello della musica black vorticante, piena di tesori e quasi sovrabbondante, con un collasso dei generi e un rimbalzo tra passato e presente che rassomiglia a una camminata in equilibrio su un filo rosso. Il tutto coronato da un cortometraggio suggestivo e atemporale, coi protagonisti e l’artista in degli altrove ora selvatici ora urbani, a rappresentare il ciclo della vita, dei drammi e, non da ultimo, delle forme sonore.
Abbiamo una replica di tutto ciò quest’anno, appunto con Grandfather Courage: il nome è quello di uno dei protagonisti della storia, lo schiavo senza nome da cui discende lo stesso Negrito e che lui ha voluto ribattezzare così; il disco dal canto suo è fatto di riarrangiamenti acustici del materiale del precedente, a detta di Negrito ispirate dall’esperienza coi musicisti che l’hanno accompagnato in tour. Curioso specialmente l’esordio, con Drifting Away e Locked Down che nascono dalla divisione dei due temi che componevano la vecchia Venomous Dogma; abbiamo poi vari momenti significativi come la trasfigurazione di Highest Bidder, qui più blues e meno funk e ancestrale, una They Go Low quasi dimessa, Oh Betty che avevo definito “blues assoluto” e che qui diventa un blues più originario (e per questo, non meno assoluto), la bizzarra Trudoo che sembrava un motteggio country e ora vira verso un indefinibile cajun gospel (!), ma per il resto devo dire che se il disco risulta pieno di idee, è perché era pieno di idee l’altro.
Insomma, bello? Sì, nella misura in cui non si dà in natura un disco di Fantastic Negrito brutto; ma inerentemente complementare, con soluzioni più che interessanti ma che risultano tali soprattutto dopo un raffronto con le versioni precedenti. È un’appendice a un altro disco, da godere tenendo conto di ciò.
Passacalle de la Follie — Christina Pluhar, L’Arpeggiata, Philippe Jaroussky (Warner Classics, 2023)
Gli dèi capricciosi cospirano per la nostra gioia di tanto in tanto, e ci regalano la collaborazione delle collaborazioni: il controtenore Philippe Jaroussky che ogni amante delle musiche antica e romantica (io molto più della prima, ma son cose mie) ama e celebra; e L’Arpeggiata di Christina Pluhar, ensemble internazionale capeggiato dalla tiorba di Colei che da oltre vent’anni è un faro per il grande movimento di riscoperta del repertorio pre-barocco.
L’occasione viene da una scelta di repertorio, come sempre per l’Arpeggiata, particolarmente originale: il genere profano dell’air de cour, genere di canto amoroso per voce e liuto che impazzava nella Francia tardo-rinascimentale di Luigi XIII e dintorni, con la possibilità di trascrizioni polifoniche e un uso della voce piuttosto dimesso, senza gran profluvio di melismi né sfoggio di estensione: quel che ci vuole, insomma, per dimostrare che Jaroussky risulta straordinario in ogni situazione. Ma il titolo parla chiaro, e così questo genere è visto alla luce del suo raffronto col genere iberico della passacaglia e quello lusitano della follia, in cui pure si cimentarono i compositori di quel contesto. Splendidi gli arrangiamenti messi in campo dall’ensemble, in cui spiccano, per il mio barbarico gusto, i continui deliziosi assicurati dall’arpa di Flora Papadopoulou (il continuo per arpa, strumento spesso associato a ruoli solistici, è proprio di quest’epoca), l’impressionante cornetto (lo si pensi come un antenato in legno degli ottoni, o un legno a bocchino quindi non propriamente tale) di Doron David Sherwin, dalla sorprendente modernità; e il lavoro percussivo di David Mayoral, specialmente l’uso sapientissimo delle nacchere (sentite una volta l’Improvisation on Les Folies d’Espagne, con cui si omaggia Martin Marais, e smetteranno per sempre di sembrarvi uno strumentino da poco). Tutto del disco è assolutamente squisito, e facendomi violenza posso arrivare a segnalare il brano manifesto Yo soy la locura di Henry de Bailly, Vos mépris chaque jour di Michel Lambert con un sentor di Monteverdi che non credo casuale, l’italica e incalzante Non speri pietà di Étienne Moulinié coi suoi echi di Bellerofonte Castaldi, e Plainte di Louis De Caix d'Hervelois, con ospite la viola da gamba di Rodney Prada, finissimo esecutore del Costa Rica. Siate folli d’amore per tutto ciò che L’Arpeggiata fa, siate lieti e non siate affamati, per carità, anzi satollatevi con questo discone.
Nick Hart Sings Ten English Folk Songs — Nick Hart (Roebuck, 2022)
Con imperdonabile ritardo mi occupo dell’ultima uscita di Nick Hart, una delle massime promesse attuali del folk isolano altresì detto il meglio della vita, cantante folk di Bristol al più fragrante gusto torba oltre che teatrante (sia come attore che come compositore). Proprio tale esperienza è forse alla base dell’approccio squisitamente narrativo e recitativo alla materia tradizionale, che arriva a maturazione in questo disco che fa seguito a due precedenti, Nick Hart Sings Eight English Folk Songs e Nick Hart Sings Nine English Folk Songs (c’è un nesso di fondo, me lo sento).
Il disco è, una volta di più per il nostro, autoprodotto, ma rinuncia in buona parte all’approccio da presa diretta dei precedecessori in favore di un maggiore uso di sovraincisioni (tutto è suonato dal solo Hart, tutto nello stesso studio, con strumentazione talvolta costruita all’uopo!). Semplicemente perfetta allo scopo la voce agra e baritonale del nostro, che spicca grandemente sugli arrangiamenti, talvolta anche stratificati ma sempre sottili. A spiccare sono le carols: nel novero abbiamo l’iniziale, percussiva May Song; segue la natalizia e sconcertante Dives and Lazarus, caratterizzata dal continuo affidato a una lira ricavata all’uopo dalle gambe di una sedia e da corde di banjo (!) e da un incedere inquietante dato da uno studiato ritardo delle pulsazioni ritmiche (dell’eseguitissima matrice Hart aveva parlato con John Wilks nel suo ottimo Old Songs Podcast, che vi raccomando calorosamente). Molto più austera e classica l’esecuzione alla chitarra della terza e ultima carola, la struggente Under The Leaves of Life. Il resto è disseminato di chicche: l’atmosferica Lucy Wan dal dilatato sfondo fatto con clarinetto e due viole; l’omaggio al pescatore e cantante Sam Larner (le cui tarde registrazioni degli anni ‘50 furono tra le basi dell’esplosione revivalista che ben conosciamo) nell’essenziale filastrocca Henry Martin; la chitarrona settantiana di The Bold Pedlar and Robin Hood; la chiusura ultraclassica con drammone di Our Captain Calls (che forse conoscerete in due o trecento versioni come Our Captain Cried, o come l’inno To Be a Pilgrim di John Bunyan, che ispirò Vaughn Williams).
Che dire? Indubbiamente straniante per i non appassionati e fieramente esclusivo, è comunque fondamentale per chi è interessato all’approccio attuale a questo repertorio — e come ogni disco folk di grande livello, capace di restituire un senso di duttilità rispetto al tempo, e di portare l’immaginazione in un’epoca remota, verso la fine di questo kalpa o verso l’inizio di un altro, con rimasugli di umanità che cantano queste canzoni attorno al fuoco, pare pare. Delizia per il folkofilo, agli altri neppur un corno.