Dopo tanti buoni propositi, seguiti da un’uscita effettivamente ravvicinata e da un nuovo reportage, ovviamente deve capitarmi un’infilata di imprevisti e impegni, con in coda una sindrome parainfluenzale anzitempo, per tenermi lontano da questi lidi. Uff. Diamoci da fare, ché le novità discografiche da coprire sono tante e anche la prossima settimana avrò poco tempo (dopo si dovrebbe andare a migliorare, salvo cataclismi & tragedie).
Avevo già accennato ai TRÚ di Belfast a proposito del loro tradizionale ucraino arrangiato Plyve Kacha (The Duckling Swims), agganciato a una raccolta fondi. Mi limitai a poche righe di segnalazione come solevo allora; ora però è uscito il loro secondo ellepì, appunto Eternity Near, e diciamo un po’ di più.
Il gruppo, nordirlandese, trae il nome (che si legge suppergiù come si scrive) da un leggendario terzetto di bardi dell’Ulster arcaico, considerati di volta in volta messaggeri dall’Oltretomba, posseduti da spiriti o latori di canzoni che raccontavano il futuro. Il TRÚ di oggidì si compone di tre cantanti e strumentisti, precisamente Zachary Trouton che aggiunge chitarre, Michael Mormecha che aggiunge percussioni (il cognome ne tradisce le origini ucraine, e con buon ritardo sono arrivato a spiegarmi la consapevolezza con cui Plyve Kacha è stata affrontata dal gruppo), e infine, alla testa dell’operazione, Dónal Kearney, voce principale di un bel tenorile elegante, che aggiunge commenti con flauto traverso e tin whistle [1].
La proposta si regge su tradizionali arrangiati, con poche eccezioni; un incantevole intreccio di voci virili, pastoso e pop, che vivifica un repertorio nativo per voce sola; e un gusto per degli arrangiamenti leggeri e scarni, affidati a una produzione à la page e a una strumentazione minimale, fatti di arpeggi acustici o accordi elettrici, pulsazioni percussive tenui e di gusto e commenti flautati che insieme, tendenzialmente, introducono delle variazioni sorprendenti verso la coda del pezzo o arrivando a un bridge inventato apposta, affiorando quando le voci tacciono e restituendo un gusto arioso e ipnotico, persino prog a tratti. Siamo dalle parti di un folk-pop trasognato e rarefatto, schiettamente romatico [2], non privo peraltro di sfumature queer, ben diverso dai graffi e dalla gamma sonora dei coevi Lankum (a proposito), e ribadisco, potentemente orientato sulle voci — lo si sappia. Sia come sia, il gruppo sorprende nel '21 col sensazionale debutto No Fixed Abode, che affidandosi a tradizionali ben consolidati vede i tre vincere la sfida di traghettarli verso una nuova decade, non da ultimo con la migliore Bonny Portmore della vostra e della mia vita (scordatevi la smielata da rosolio nel salotto con quercia scolpita della McKennitt, per l’amor dei Túatha Dé Danann).
Due anni dopo eccoci col sopho secondo disco, Eternity Near, pubblicato dopo varie traversie personali e un processo raccontato via podcast personale, e autoprodotto come il precedente. Dal podcast emerge, ed è interessante, che tra i riferimenti del gruppo ci sono le I’m with Her, il supergruppo bluegrass con Sara Watkins, Sarah Jarosz e Aoife O'Donovan, e in effetti, l’influenza statunitense è ben percepibile dall’inizio: il titolo del disco viene dal testo dell’iniziale The Long Black Veil, pezzo di matrice country di Marijohn Wilkin, rifatto da Johnny Cash e che conobbe una nuova fama a metà anni Novanta con la versione dei Chieftains cantata da Mick Jagger per il loro disco omonimo. I nostri prendono proprio da questa dandole un tocco personale, persino Merseybeat, e introducendo ai temi generali del disco: l’esplorazione della morte dall’altro lato, col delizioso e tutto gallico contrasto fra la tragicità (quando non la truculenza) delle vicende e la leggerezza dell’intreccio musicale, delle melodie. Il disco scorre benissimo, grazie anche alla sua giusta compattezza, salvo che come tanti dischi imperfetti si accascia un po’ a tre quarti.
Tra i brani segnalo: l’originale The Ballad of Billy Jones, con una serrata vicenda western (di quei pezzi che non diventano una hit radiofonica per pura sfortuna); la leggera e struggente Selkie Song (Young O'Kane) sulla tragica sorte della progenie delle selkie, le donne-foca delle leggende; il surreale amor perduto di Is Fada Liom Uaim Í, tradizionale trasmessoci da Kevin Burke e Micheál Ó Domhnaill negli Ottanta e proposto dai nostri in una versione un po’ più serrata; la melensissima (ricordiamo che qui è un complimento) A Red, Red Rose con strumenti scambiati e la voce solista, dolente e rotta, di Mormacha; la conturbante Two Sisters su una tragica rivalità tra sorelle culminante con la tragica morte della minore, dalla cui cassa toracica verrà fatta un’arpa incantata; e il classicone in quasi-chiusura Wild Mountain Thyme. A chiudere l’offerta, dei trad riproposti in modo molto devoto come dTigeas a Damhsa, Úirchill an Chreagáin e una percussiva Seán Bháin.
Nel complesso promuovo il disco, con due note di demerito: una per l’assenza di quella gemma pop di Old Types, registrata a suo tempo con la Ulster Orchestra e rimasta sola soletta; l’altra perché devo rilevare che, rispetto al precedente, si guadagna sì in finezza ma perdendo qualcosa in ardore — forse ricuperato dal vivo vista la loro ottima resa, ma su disco quest’è. Aspetto i tre per una sintesi più compiuta che sappia metterli sul podio della scena attuale. Per adesso, comunque, conservo il solluchero.
In fondo abbiamo il disco ascoltabile per intero su Bandcamp, e i video: rispettivamente una versione live di A Red, Red Rose; i bei video di The Long Black Veil e Is Fada Liom Uaim Í, e una versione live sempre di The Long Black Veil. Poi anche Old Types, così, per conoscenza. Alla prossima, non prestissimo, temo.
[1] Per chi è ancora così poco folkofilo da non sapere di che si tratta (se non ci fossi io, se non ci fossi!), è il tipico flagoletto in metallo, suonato dritto e di varie misure e registri, che potete sentire in azione in metà delle formazioni irlandesi tradizionali (nonostante l’origine probabilmente inglese dello strumento, ma è storia per un altro giorno). È famoso per, be’, quel che ci faceva Paddy Moloney, e per la sua ingannevole semplicità: il fatto che, diversamente da un flauto dritto classico, il salto all’ottava superiore avviene soffiando più forte rende necessario un finissimo controllo dell’emissione e decisamente difficile il fraseggio. Per la cronaca, ne ho un astuccio pieno così — e li suono male, come il resto.
[2] La cosa di cui c’è più bisogno oggi, inclino a pensare — nel senso di un recupero del valore dell’autenticità contro la tirannide non già del mercato (per quel che ne rimane, poi), ma del profilo. Un giorno magari ci torno.