L'avventura secondo Westwood 5: Guardians of Destiny — settembre 2009
Sarebbe stato precursore, non fosse arrivato troppo presto
Con questo chiusi la retrospettiva sulle avventure Westwood: all’epoca non avevo idea di come recuperare l’ardimentosissimo Blade Runner, perso all’epoca dell’uscita (c’è un’Enhanced Edition uscita appena l’anno scorso, che ha permesso a molti di riscoprirlo dopo anni in cui i problemi di compatibilità lo avevano reso improbo), e lo stesso per Lands of Lore III, che peraltro conoscevo abbastanza per sapere che vedeva una Westwood scarsamente investita e in altre faccende affaccendata. Così questa mia operetta rimase mutilata, si può dire. Ma ne fui contento lo stesso.
Oggi, pensando alla serie di The Witcher, a Mass Effect e a quanto l’RPG ad alto budget si sia alleggerito e sia svoltato in senso avventuroso, ho un’opinione forse anche più alta del coraggio dimostrato da Lands of Lore: Guardians of Destiny; non altrettanto di come il gioco riuscì alla fine. Ma arrivò sia troppo presto che troppo tardi. Mi piace ricordare ancora quel gran peccato che fu.
Originale su Ars Ludica, qui.
Lands of Lore: Guardians of Destiny | PC: 1997
A dispetto di quanto la sorte sembrasse arridere a Westwood nella seconda metà degli anni ’90, allorquando il fenomeno Command & Conquer sembrava inarrestabile, lo sviluppo del secondo Lands of Lore conobbe travagli inaspettati: a lungo si avvicendarono screen clamorosi e la tensione si mantenne altissima, ma quattro anni per sviluppare un gioco erano ancora tanti e l’uscita avvenne inesorabilmente fuori tempo massimo: tra schede accelerate, Pentium che moltiplicavano i pani e i megahertz e le console a 32 bit che sdoganavano il 3D come ideologia paratotalitaria, l’ubriacatura audiovisiva dei videogiocatori era alle stelle e Guardians of Destiny figurò senza scampo come un titolo tecnologicamente nato vecchio. Gli ambienti in finto 3D alternati alle schermate renderizzate con attori cuciti sopra rimandavano all’era oscura del CD-ROM (quantunque una patch successiva offrisse il supporto alle Direct3D, caso probabilmente unico tra i titoli con questo tipo di motore) e a questa percezione si aggiungeva, tra gli appassionati, quella del tradimento del franchise e del genere di appartenenza a livello di gameplay. In realtà, col senno del poi, LoL: Guardians of Destiny risulta essere un passo lungo e deciso nella direzione indicata dal predecessore, quella dell’alleggerimento dell’RPG verso orizzonti adventure; e la penuria di posteriori tentativi di imitazione va a conferma, se non altro, del coraggio dell’operazione. La rivoluzione può dirsi per buona parte compiuta, e per buona parte anche riuscita.

Non ci sono personaggi da selezionare, in questa nuova avventura: impersoniamo per forza di cose Luther, figlio della defunta strega Scotia. Accusato di far parte delle armate di quest’ultima e recluso nella prigione del castello di Gladstone, Luther riesce a evadere rocambolescamente grazie a una maledizione, retaggio materno, che lo vede trasformarsi saltuariamente e in modo casuale in una lucertola o in un possente mostro; inizialmente lo guidiamo nel tentativo di raggiungere e conferire con una vecchia conoscenza del primo episodio: il Draracle, essere antichissimo e semidivino col dono della veggenza (in effetti risulta, di nome e di fatto, una fusione non felicissima tra un “dragon” e un “oracle”). Sebbene il fine iniziale di Luther sia quello di disfarsi della maledizione, gli eventi lo condurranno, attraverso anche l’incontro con altri personaggi già visti come Baccata e la maga di corte Dawn, a contrastare Belial, essere della stessa schiatta di Draracle ma con velleità di conquista, ucciso in un lontano passato ma in procinto di rinascere. La funzione di ago della bilancia svolta da Luther, personaggio peraltro dotato di sottile cinismo e ben tratteggiato nella sua amoralità, è ben esemplificata da come la sua condotta lo condurrà verso un finale tra sette disponibili, a seconda del comportamento che terrà prima della sconfitta di Belial e della direzione verso cui deciderà di approfondire il rapporto con Dawn (con la quale, per così dire, ce n’è).
Gameplay e interfaccia sono all’insegna dell’agilità: il movimento è libero anziché a caselle e sono disponibili sia la corsa che il salto; l’interazione con l’ambiente avviene mediante click singoli sugli oggetti da raccogliere, usare e spostare o sulle due icone in basso a destra destinate all’arma e all’incantesimo pronto; l’automappa delle varie sezioni è in tutto e per tutto analoga a quella degli FPS classici come Doom; la lista degli incantesimi e l’inventario sono a tendina e il secondo, oltre ad essere espandibile e non più necessariamente limitato a una barra scorrevole, consente di accumulare più esemplari dello stesso oggetto nella stessa casella. Si nota, poi, un forte e non gradevolissimo scollamento tra le sezioni esplorative e quelle in cui si è chiamati a interagire in singole stanze o a parlare con altri personaggi: in questo caso il gioco ricorre a schermate prerenderizzate che rimandano a Myst e affini. Non mancano oggetti nascosti, segreti sparsi per le mappe, puzzle ambientali e subquest varie, quest’ultime molto incrementate rispetto al passato grazie anche al fatto che sono banditi denaro e compravendita (si possono ottenere oggetti da altri personaggi solo attraverso baratti molto specifici — nei fatti classici ritrovamenti da subquest — e la cosa stranamente riguarda anche quelli che sarebbero negozianti a tutti gli effetti). Non mancano un paio di vere e proprie sezioni segrete, floride di oggetti ma del tutto facoltative, e non semplici da trovare.
Peculiare e significativo è il fatto che tutti i parametri (non solo vita e mana, sempre visibili, ma anche forza, protezione, attacco in corpo a corpo e con armi da tiro) sono rappresentati da barre, che offrono il vantaggio di mostrare quanto si è vicini al massimo permesso dal gioco. La progressione funziona in modo analogo al primo episodio: Luther è un personaggio fondamentalmente bilanciato e polivalente e può guadagnare livelli sia come mago che come guerriero (a cui viene assimilata anche l’abilità con le armi a distanza, essendo abolita la classe del ladro) compiendo azioni conformi che vanno a riempire le due distinte barre di progressione. Tuttavia, quando ci si trova in punti predeterminati delle mappe, la maledizione porta a trasformarsi nelle due forme già citate, che in qualche modo rappresentano degli estremi: il mostro è lento, inabile a saltare e a lanciare magie ma resistente, capace di spostare oggetti altrimenti troppo pesanti e potente negli attacchi; dal canto suo la lucertola è debole e quasi inerme in corpo a corpo ma veloce, agile, capace di passare per anfratti stretti e, in virtù della sua natura draconica, provvista di capacità magiche amplificate. Le magie, per buona parte riciclate dal primo episodio, possono ancora essere lanciate a diversi livelli di potenza, mana permettendo, sebbene stavolta ai quattro livelli canonici se ne aggiunga un quinto attivabile con delle apposite pietre. Ferma restando la derivatività del repertorio di magie (peraltro più ristretto rispetto a quello, già relativamente povero, del primo episodio) si segnala un incantesimo che permette un qualche controllo sulla maledizione — inizialmente foriera di non pochi fastidi, quantunque divertente col tocco di imprevedibilità che aggiunge — e i cui livelli di potenza si acquisiscono in fasi predeterminate del gioco: da un semplice effetto inibitore da lanciare con tempismo si arriva alla possibilità di assumere deliberatamente una delle forme alternative fino a quella, nelle fasi più avanzate, di tornare a piacimento alla forma umana.
Si segnala, infine, il recupero di un’altra virtù del primo episodio: la varietà e l’interesse dell’oggettistica. Anche stavolta si possono trovare svariati artefatti usa e getta e le proprietà degli equipaggiamenti vanno sperimentate sul campo — operazione quest’ultima complicata ulteriormente dal fatto che parte dell’oggettistica influenza le forme inumane senza dare vantaggi visibili a quella principale (si prenda ad esempio un anello che accelera la velocità di attacco del mostro). A ciò si aggiunge però un elemento come la Farmacopea: in anticipo sul più complesso e raffinato sistema di The Witcher, raccogliendo svariati prodotti del suolo di utilizzo spesso non immediato possiamo unirli a coppie per ottenere misture alchemiche di varia utilità, da scoprire per tentativi. Tra gli oggetti notabili si segnalano anche delle sorte di sfere oracolari che offrono degli sguardi sul passato (di fatto sbloccano dei filmati) forieri di dettagli sulla storia, non indispensabili ma d’interesse, oltre a saltuari indizi utili al proseguimento.
Lands of Lore: Guardians of Destiny rimane a tutt’oggi controverso: non lo si ricorda come un classico degli RPG perché troppo distante dalla grande maggioranza di questi ultimi, lo sviluppo della storia fu spesso tacciato di essere troppo lineare (non ci sono molte variazioni sul tema del passare da uno stage al successivo) e di scarso interesse per via della natura di eroe un po’ troppo per caso del protagonista; con tutto ciò, l’arretratezza tecnica scontentò quel pubblico PCista che da questo punto di vista si vedeva schiudere nuove meraviglie proprio in quel momento. Westwood, tuttavia, non si sentì ancora di abbandonare la via intrapresa.