Ultimamente presento singolarmente soprattutto dischi di “colta”. Abbiate fede, con le uscite la cosa cambierà, e comunque ciò di cui vi parlo ora, a voler guardare, è a mezza strada.
Siamo a Vézelay, in Borgogna, con l’ensemble franco-tedesco The Curious Bards: il quintetto, capeggiato dal violinista Alix Boivert che è anche direttore artistico, si compone di musicisti formatisi nell’alveo dei repertori antichi, tutti con curriculum ragguardevole (hanno studiato nei conservatori di Lione, Parigi e Basilea) e unitisi per portare avanti le loro passioni celticheggianti: la cosa non stupisca troppo, la Francia ha parecchi appassionati nella materia, più che l’Italia1 — l’Ibernia e la Caledonia hanno sempre un posto nei cuori continentali, e non certo da oggi. L’idea è quella di recuperare repertori d’epoca e riproporli con consapevolezza e una buona rinfrescata — facendo pagare un po’ il fio al rigore filologico, e dichiaratamente (e del resto, per fare un esempio, il flautista Bruno Harlé usa anche il tin whistle senza tanti complimenti). L’approccio è proprio quello di moderni bardi, ossia di custodi, esecutori e creativi al tempo stesso2. Qualcosa di simile la fece la leggenda catalana che ha nome Jordi Savall, col suo dittico The Celtic Viol (che non posso non menzionare, stante la sua nitida bellezza). Qui siamo al secondo disco dell’ensemble, sempre per l’etichetta tedesca Harmonia Mundi, dopo il debutto [Ex]tradition del '17 che era tutto a base di tradizionali arrangiati.
Il repertorio, si diceva, è sia scozzese che irlandese, tratto dai codici settecenteschi rimastici, eseguito a livelli altissimi e secondo direttive che il gruppo si è dato da sé. Il risultato è di particolare gusto — spesso ho sentito musicisti d’accademia cimentarsi con questi repertori e cavarne qualcosa di non riuscito, se non proprio scorretto; irrigidito su canoni classici fuori contesto con cui queste partiture non respirano. Di gusto, dicevo, e producente un curioso effetto: proprio come l’ensemble si proponeva di fare, la distinzione occidentale tra musica seria e popolare qui collassa, e sentiamo qualcosa che le lambisce senza soluzione di continuità; diversamente da tante operazioni battezzate di classica contemporanea, che popolarizzano troppo ma senza il giusto spirito e si impantanano nel peggior midcult (potrei fare dei riferimenti vicinissimi a casa nostra, ma credo che ci arriviate benissimo da soli: pensate a un pianoforte a coda e ci siete). Fusione che è riscontrabile peraltro in una delle caratteristiche più tipiche della celtica viva: i medley, i brani strumentali che scivolano l’uno nell’altro. In questo disco ben sei, talvolta con gli ospiti Pierre Gallon ai clavi e Quentin Viannais, che offre le sue pipes (che a me paiono proprio quelle Northumbrian, ma abbiate pietà se sbaglio) anche nel lamento Daughters Lament.
Il repertorio, che diversamente dal disco precedente non è tradizionale (dato che si parte da codici) è per la maggior parte di autore anonimo, con delle eccezioni che fanno tutte capo a un nome: Turlough O'Carolan, l’arpista, cantante e compositore di epoca barocca di gran gusto melodico (e occasionalmente classico) e noto, aneddoticamente, per la sua cecità. Sue sono le magnifiche canzoni Mable Kelly (il cui arpeggio mi riporta dritto come una freccia ai mitici Silly Wizard) e Fanny Dillon — ambedue con la voce ospite, liquida e azzeccata, di Ilektra Platiopoulou, mezzosoprano di Salonicco, che possiamo apprezzare anche in By Moonlight on the Green, nel brano di chiusura Old Towler e nella curiosissima The Tears of Scotland, che cascasse il mondo, nell’armonia mi suona persino di ispirazione italiana (di allora, s’intende). Lavoro delizioso, da godere tutto intero apprezzandone la cristallina bellezza e le molte familiarità, percepibili soprattutto se siete già celtomani.
Vi lascio al disco su Spotify, al video di The Tears of Scotland e a una curiosissima serie di video su YouTube in cui ciascun membro dell’ensemble presenta il proprio strumento e come è stato ricostruito (parlano tutti in un francese un po’ chiuso, ma coi sottotitoli qualcosa si ricava): per me notevolissima soprattutto la cistre barocca di Jean-Christophe Morel, che mi dà una nuova prospettiva sull’adozione del bouzouki in ambiente celtico nei ruggenti anni Settanta. Vi aspetto con un riepilogo salvo imprevisti, e forse col cambio del giorno di pubblicazione — la collocherei lunedì, anticipando di un giorno, così che la newsletter possa allietare la settimana nell’ora più buia. Se ci sono obiezioni, sarò lieto di leggerle. Alla prossima!
Ne ha di più anche la Spagna, specie grazie alle affinità riscontrabili nella musica delle Asturie; ma è storia per un altro giorno.
Per inciso, è da sempre la mia classe preferita nei ruoli di gioco fantasy (oltre in generale ai mestieri di carattere sacro, tipo preti e druidi, se disponibili): mi trovo molto nell’archetipo del bardo risalente a Dungeons & Dragons, di quello che ha letto roba e non sa fare veramente niente, e si cimenta un po’ con questo, un po’ con quello, detestando i limiti e incocciandoci di continuo. È proprio come mi sono sempre sentito.