La retrorecensione di Dreamweb — ottobre 2008
Di quando scrissi di quell'avventura grafica cyberpunk con vista dall'alto per alienare il giocatore
Acerbo (tra l’altro ho deciso di scartare le primissime recensioni che ho pubblicato, le trovo davvero improponibili rileggendole) e il Diario di un pazzo di Gogol’ non è come lo descrivo, e sì che l’avevo letto (lo stato di delirio del protagonista è molto più evidente, anche se rimango persuaso di aver azzeccato il riferimento). Ma vale sempre come segnalazione di un gioco retro che non si ricorda nel modo dovuto, anticipatore inaspettato di molti prodotti più recenti e blasonati. A tutt’oggi non è in vendita da nessuna parte, e ci si può giocare in emulazione con ScummVM.
Il pezzo originale era su Ars Ludica, qui.
Sviluppato da Creative Reality | Pubblicato da Empire
Piattaforme: PC MS-DOS (Floppy e CD-ROM), Amiga 500/600, Amiga 1200
Rilasciato nel 1994
Che sconcerto, Dreamweb.
La critica di allora fu tiepida, quando non volle infierirvi, con questo monstrum digitale, apparentemente scalcinato freak punta-e-clicca che oggi è un piccolo oggetto di culto, cui venivano dedicati sitarelli adoranti [oggi offline, quindi link rimosso, ndr] che ne riportano l’intera risoluzione in video, come fosse il declinarsi di un’opera vera, con tutti i crismi. Mica di un giochino.
Dreamweb in buona sostanza è forse il primo caso di avventura grafica, e tra i pochissimi casi di videogioco in genere, che cerca deliberatamente, fin dal midollo del design e della rappresentazione, di fare in modo che il giocatore si senta emotivamente respinto. Ma andiamo con ordine.
Il protagonista è tale Ryan, ovvero un pazzo.
La confezione include infatti il Journal of a (Mad?)man, che fa il verso al Diario di un pazzo che chiude i Racconti di Pietroburgo di Gogol’, la breve cronistoria dell’ascesa del re di Spagna e dell’incontro coi suoi sudditi dalla testa rasata che solo attraverso vari indizi testuali si rivela come la piccola parabola discendente di un maniaco e della sua chiusura in una casa di cura. Il diario di Ryan è scritto a mano, prima con grafia stretta e febbrile, poi dilatata e sbavata all’avanzare della follia, in un climax che parte dal suo amore tormentato per la fidanzata Eden, prosegue con le sue insicurezze identitarie e i sogni che lo perseguitano e culmina con l’adesione al sogno che costituisce l’introduzione del gioco: infine, dopo aver scorto la ventura dissoluzione del mondo, gli appare un misterioso Guardiano, alla testa di un gruppo di monaci incappucciati. Egli lo informa che il fantomatico Gruppo dei Sette sta cercando di impossessarsi del potere del Dreamweb, la Rete dei Sogni, la struttura che cerca di stabilizzare i sogni e l’immaginario dell’umanità per mantenerne l’equilibrio — quell’equilibrio che i Sette, tutti infiltrati in posizioni di potere, intendono compromettere per i loro fini di controllo. Ryan riceve così una missione divina che, come sempre in questi casi, lo investe senza che abbia mostrato meriti particolari e sposta il suo destino in una direzione che non aveva chiesto (non è forse sempre questa la storia dei profeti e degli eroi, come pure dei folli?): sarà il “Deliverer”, liberatore e portatore di morte; dovrà andare là fuori, trovare i Sette e ammazzarli uno dopo l’altro.
Ryan così ha fatto propria una missione solo sognata, dovrà salvare qualcosa che non abbiamo visto se non dentro la sua testa: che la sua missione non sia altro che un delirio? Siamo già irrequieti.

Ryan è a letto con Eden (il paradiso che si appresta a perdere?), si sveglia e le parla dei sogni che lo perseguitano, tenta forse un’ultima richiesta di aiuto, forse le sta già mentendo. Ma non ci sarà niente da fare: sotto la nostra guida verrà sospeso dal lavoro al bar, riceverà una liquidazione e la userà per comprare una pistola da un trafficante. Non ci resta già più che assecondare questa pazzia.
L’ambientazione, una non meglio precisata città futuristica in perenne, plumbeo grigiore, ci appare sottoforma di ambienti visti dall’alto, frazionati e minuscoli, ogni volta non occupano che modeste porzioni dello schermo e la completa mancanza di un qualche tentativo di studio delle inqadrature è già alienante. Ryan è solo una testa e due spalle (giusto la rappresentazione a lato ci fa vedere che faccia abbia, cosa che fra altro possiamo scordarci per tutti gli altri personaggi), noi siamo come il Dio dei bambini che li guarda sotto le lenzuola; scrutiamo pupazzini che stanno seduti sul cesso, scopano, muoiono in laghi di sangue, ma di cui non può importarci niente. La musica (di tale Matthew Seldon: bravo!) è fredda e ossessionante, l’interfaccia è una sbilenca bizzarria che cerca di limitare il pixel hunting con un piccolo box che ingrandisce gli oggetti puntati, e ci dà l’accesso a un inventario dimesso e striminzito in cui alcuni spazi sono già occupati dai vestiti di Ryan (a che pro, se non serve a niente toglierli? Possiamo solo fargli indossare gli occhiali da sole, e invariabilmente sentiremo di doverlo fare). Possiamo raccogliere ogni genere di ciarpame da appartamenti in angoscioso disordine, anche se solo una minima parte di esso ci servirà effettivamente a qualcosa.
La catena dei delitti ha inizio. Dopo aver ucciso il primo e più debole dei Sette, la rockstar David Crane, scopriremo che dopo ogni delitto Ryan cannibalizzerà lo spirito dell’ucciso e verrà portato nel Dreamweb, dove il Guardiano lo aggiornerà sulla missione e da cui poi tornerà in città, in qualche altro punto. In queste fasi Ryan non ha scrupoli di sorta, è fedele e ossequioso agli ordini impartitigli — ma è davvero possibile che non tentenni nemmeno un po’? E quando lo vediamo assorbire uno spirito non stiamo partecipando al suo delirio, come abbiamo già fatto guidandolo? Siamo straniati.
La spirale di follia e morte non si fermerà: poco dopo dovremo affrontare la tipica situazione da avventura grafica del guardiano all’ingresso, che di solito va pagato, distratto o favorito, ed è tremendo scoprire che non bisogna fare altro che sparargli in faccia. E dovremo anche usare dei terminali, incluso quello di Eden, che rivedremo in un incontro senza speranza: Ryan tornerà al suo appartamento, la troverà sotto la doccia, la liquiderà con un dialogo equivoco e poi prenderà le informazioni necessarie sul suo datore di lavoro, anche lui un membro dei Sette. Non c’è altro.
In alcuni casi può succederci di venire uccisi e di dover ricaricare la posizione, e allora un testo ci riferisce della fine del mondo a venire, delle guerre totali, dei regimi disumani. Ma non siamo disposti a crederci; per quanto possiamo raccogliere diverse prove indiziarie non abbiamo mai la concreta sensazione di stare sventando una minaccia. Delitti, sembrano solo delitti in un mondo già alla fine.
La follia dei Sette è speculare alla nostra, quasi ci assecondassero: troveremo un membro (stavolta una donna) già a pezzi, nel suo appartamento divelto da un’esplosione, perché si era “mostrata debole”. Un altro membro, un prete divenuto sempre più potente con la morte di cinque dei suoi colleghi, eseguirà su di sé un esperimento genetico per superare i limiti delle umane spoglie e lo troveremo nei sotterranei della chiesa, orrendamente mutato, morto nel tentativo e non più minaccioso. L’ultimo ci inseguirà sui binari della metropolitana e finirà sotto il treno, togliendoci qualunque senso di trionfo, se mai fossimo stati disposti a provarne uno. Il finale vedrà il Guardiano affrancare Ryan, ormai identificato e pluriricercato, solo per il tempo necessario al compimento del suo fato di sangue. Un finale a sorpresa? Eppure sembra solo la conclusione più ovvia.
Non sappiamo nemmeno bene se ci ha gratificato arrivare al termine. Abbiamo dovuto risolvere enigmi di difficoltà non indifferente, e per cosa? Una piccola stretta allo stomaco, il segno che il gioco ci ha lasciato.
Che sgomento, Dreamweb.