La retrorecensione di Icewind Dale — febbraio 2009
Problemi definitori di generi oggi già ridefiniti
Qui facevo una strana analisi ontologica dei classici giochi Black Isle (poi, più notoriamente, Bioware) oggi superata dall’ondata nostalgica fatta di edizioni Enhanced e di una rapida fiammata di emuli già in esaurimento dopo pochi anni, destinati a un pubblico che, ad oggi, considera quei titoli l’apice di non so nemmeno bene che.
Oggi calcherei di più la mano sui difetti del gioco; l’Infinity Engine (concepito inizialmente per giochi RTS) non funzionava propriamente per il genere e gli errori di design erano innumerevoli: moltissimo è gestito da meccanismi sotterranei indebitamente occulti, l’interfaccia sembrava nascondere attivamente le abilità dei personaggi, posizionare i personaggi dove si voleva era a volte impervio e le liste di magie tratte da Dungeons & Dragons erano soverchianti, anche perché si finiva per scoprire che molte erano inutili (a maggior ragione perché erano pensate per un contesto a turni; per cui spesso, in tempo reale, funzionano diversamente. Alcune poi hanno senso solo in un contesto strettamente ruolistico, e non è il nostro caso). È un gioco con cui mi diverto ancora, e che considero a tutt’oggi superiore al ben più noto Baldur’s Gate 2 (se non altro per l’atmosfera, le minori pretese e l’assenza di comprimari petulanti); la versione Enhanced mi ha messo voglia di riprovarlo con le nuove sottoclassi. Ma lo apprezzo perché lo conosco, e riesco a tenergli testa anche alla difficoltà massima (e con un gruppo da sei personaggi, diversamente da come consigliavo nell’articolo, perché riesco abbastanza a evitare che si intralcino fra loro), ma ciò grazie all’esperienza passata e alle guide a un tiro di clic, non certo perché il gioco si è lasciato scoprire. Un giovane d’oggi credo che fuggirebbe, e non lo biasimo di certo.
Sono un po’ in crisi con gli RPG in genere: The Witcher 3 era così buono che me li ha rovinati un po’ tutti, ma ciò significa che vi ho visto molte evoluzioni in meglio; in generale trovo sensato che gli RPG videoludici scelgano se fondarsi più sull’avventura o sul combattimento, se più sulla storia o sul sistema e le scelte, anziché cercare un’irraggiungibile comprensività; soprattutto trovo sensato, e molto positivo, che i sistemi ruolistici sottesi al tutto siano più trasparenti e meno convoluti. Tendo ad apprezzare anche le meccaniche di sopravvivenza (come la necessità di mangiare o di procurarsi strumenti per bisogni elementari), ma non si vedono spesso. Nell’articolo mi definivo “conservatore” al riguardo, e non so più perché.
Tornando al pezzo in sé e concludendo, qui taglio completamente le note finali su come reperire il gioco, oggi del tutto desuete.
L’originale si trova su Ars Ludica, qui.
Prodotto da Interplay
Sviluppato da Black Isle Studios
Piattaforme PC, Mac
Pubblicato nel maggio 2000
Dubito che, dei tanti generi videoludici attualmente codificati, ne esista uno sottoposto a dispute ontologiche più degli RPG. Le filosofie di fondo dei titoli più illustri, infatti, differiscono come non accade altrove: un platform in linea di massima può essere jump & run oppure no ma non pone altri problemi, un picchiaduro può essere a incontri o a scorrimento (e volendo non si tratta nemmeno di variazioni dello stesso genere, ma proprio di due generi diversi) e morta lì. Parlo solo di classificazioni di genere naturalmente; non disconosco le differenziazioni interne che, per quanto significative, sono di definizione meno coesa.
L’ontologia degli RPG, invece, è clamorosamente dibattuta: devono favorire la narrazione o esaltare la libertà d’azione? Devono essere frenetici o compassati? Devono incentivare la lotta o l’interpretazione? E’ giusto che si possano incontrare mostri di livello più alto del proprio (anche di molto) o dev’esserci piuttosto un adeguamento a quest’ultimo? I JRPG sono RPG? e così via.
La faccenda si mostra nella sua oscurità nel momento in cui, a tutt’oggi, si trovano siti che classificano persino Diablo 2 come RPG, e lo stesso per il qui presente e coevo Icewind Dale. Approfondiamo meglio.
Uscito sulla scia del fenomeno Baldur’s Gate, questo titolo ne riprende le regole basate su AD&D, l’ambientazione (i drammaticamente poco interessanti Forgotten Realms che, al pari della maggior parte delle ambientazioni di D&D, testimoniano dell’estrema difficoltà che si incontra oltreoceano nel costruire un immaginario medievaleggiante — le copertine dei romanzi di Salvatore & co. mi ricordano tanto i filmati di importazione usati da Roberto Giacobbo in Voyager, detto fuori dai denti) e l’engine: il famigerato Infinity, tanto magistrale nella rappresentazione degli ambienti quanto povero in quella dei personaggi, riconoscibili quasi solo per l’equipaggiamento che hanno indosso, per tacere della coreografia degli incantesimi all’insegna del riciclaggio. Ma non divaghiamo.
Dall’illustre progenitore eredita la linearità decisamente spiccata, la struttura a base di sezioni con tanto di boss finale e di hub in cui tornare per ristorarsi e fare compravendita (in questo caso Kuldahar, villaggio caloroso nella morsa dei geli di Icewind Dale, minacciato dall’ennesimo oscuro male), ma ne differisce per l’enfasi ancora maggiore data alle botte: pochissime e di nessuna difficoltà le quest diplomatiche e completa assenza di compagni da reclutare per via — bisogna costruire da zero il proprio party di non più di sei personaggi (ma è molto più divertente e, alla lunga, conveniente farne al massimo quattro) e stabilire un leader, che ovviamente prenderà per sé il grosso dei punti di carisma. Gli altri saranno il suo muto codazzo, e persino l’allineamento serve solo a interdire l’uso di alcuni oggetti magici. Il combattimento, come sempre, si basa sull’assegnazione di comandi via mouse — impartibili anche in pausa — e sulla lettura ossessiva di tutte le azioni nel log in basso.
Prima accennavo a Diablo 2, e non a caso. Un errepigista abbastanza conservatore come il sottoscritto infatti tende a inorridire di fronte alla definizione di RPG data a quest’ultimo e a esclamare: ma no, è un hack’n’slash, è un ammazzamostri pigiapigia la cui essenza sta nel clic logorante, nell’ossessione per la build perfetta e nel massacro indiscriminato del male del mondo nelle sue mille forme, nella cooperazione e competizione multiplayer. Non diciamo eresie.
Ma anche nel definire RPG un titolo come Icewind Dale ho un fremito, nonostante non rientri nei canoni dello hack’n’slash — il reperimento degli equipaggiamenti non è così aleatorio, il concetto di build scompare di fronte alla rigidezza delle classi di AD&D, e poi basta cliccare e i personaggi menano da soli. E tutto sommato i dialoghi sono un po’ più approfonditi, possono perfino dare esperienza. Ma non è possibile nemmeno ritenerlo un action RPG, visto che quest’ultimo sottogenere tende a presupporre un controllo sul personaggio più diretto.
Dovrei forse considerarlo un aborto di RPG e snobbarlo, eppure mi diverte più di Diablo 2 e, fatto più strano di tutti, lo fa in modo piuttosto simile a quest’ultimo.
Nell’ansia definitoria che mi prese ebbi un’epifania: Icewind Dale è un hack’n’slash semiautomatico, che rende la soddisfazione del pestaggio dei mostri potendo scegliere le azioni con comodo senza smanettare febbrilmente tra i menù e senza estenuare il dito indice sul tasto sinistro del mouse. E senza doverti far scegliere fra mille abilità ma solo fra una manciata di classi, ponendo l’enfasi su un utilizzo relativamente tattico delle stesse.
E presa per quello che è, è una formula che non funziona per niente male.