Sulla genesi di questa retrospettiva, ho detto nella parte precedente. Andai in ordine cronologico di uscita dei giochi, quindi passai a Lands of Lore. In fondo metto i link alle parti precedenti.
Qui si segnala un mio giudizio en passant su Ultima VIII (di cui avrei scrisso estesamente, come conto di farvi vedere) ben più lusinghiero del dovuto. La varietà di ambienti offerta dai livelli, oggi, si è vista davvero in tutte le salse, anche se rimane non scontata (si raffronti Legend of Grimrock al suo seguito, per esempio). Anche all’epoca dell’uscita non era qualcosa di così inedito, comunque. La prosa originale (qui) era più tortuosa del solito.
Lands of Lore: The Throne of Chaos | PC MS-DOS, NEC PC-9801: 1993 / PC CD-ROM: 1994, 1996 (edizione speciale “White Label”)
La vulgata vuole che il progetto Lands of Lore sia nato come una sorta di risposta da parte di Westwood allo smacco di non essersi vista commissionare il terzo episodio di Eye of the Beholder. Comunque siano andate le cose, dal risultato finito traspare chiaramente come la casa abbia voluto approfittare dell’occasione per proporre una deviazione del genere RPG verso una declinazione sempre più leggera nella gestione e vicina al concetto di gioco di avventura in senso lato; in ciò decisamente più coadiuvata che danneggiata dal fatto di non poter più ricorrere alle basi di Advanced Dungeons & Dragons, che costituivano l’ossatura della saga abbandonata. Westwood fu tra le iniziatrici di questa tendenza di cui, a tutt’oggi, cogliamo i frutti (ahimè, non sempre dolci), anticipata di un annetto scarso dalla Origin con Ultima VII: The Black Gate, celebre oltre che per le elevatissime qualità ludiche intrinseche anche per tutta una serie di snellimenti nell’interazione (il cui ulteriore sviluppo vedremo nel non meno straordinario Ultima VIII: Pagan, tacciato tuttavia da molti fan della serie di costituirne persino una deriva arcade).
L’ambientazione è tutta nuova e, invero, non certo più spessa dei Forgotten Realms dei predecessori: il regno di Gladstone e i paesi limitrofi (che rientrano nella semplice definizione di “The Lands”, le Terre) in effetti si segnalano giusto per la particolarità delle razze civili non umane: eliminate le derivazioni tolkieniane in forma di elfi, nani e mezz’uomini di varia fatta ci imbatteremo, oltre agli umani, nei meditativi Draconidi, nei combattivi Huline (una sorta di uomini-gatto), nei Thomgog dalla pelle spessa e con quattro braccia; e in razze meno diffuse quali i Gorkha delle paludi. La trama, abbastanza ramificata ma essenziale nei fondamenti, vede il regno di Gladstone minacciato dalla strega Scotia, entrata in possesso dell’anello noto come Nether Mask che le conferisce formidabili poteri di trasmutazione, e la cui disfatta costituisce la quest principale. Quest’ultima si articolerà inoltre nel salvataggio del Re Richard, che inizialmente ci affida la missione, dall’avvelenamento a opera di Scotia, attraverso il recupero dei rarissimi ingredienti dell’antidoto, oltre che nel recupero del Ruby of Truth, anello regale capace di contrastare la Nether Mask.

La prima avvisaglia dello snellimento compiuto si manifesta proprio nella schermata iniziale, nella quale siamo chiamati a scegliere il nostro alter ego tra quattro personaggi già pronti e con attitudini marcate, indicate da tre soli parametri: forza, difesa e magia. Le scelte sono il guerriero Michael, il draconide versato nella magia Ak’shel, il rapido huline Kieran, manchevole in tutti e tre i parametri principali ma che spicca in quello occulto della velocità (all’atto pratico, la pausa che intercorre tra un’azione di combattimento e l’altra) e il factotum Conrad. Nel giro iniziale per le stanze del castello di Gladstone, secondo i dettami del più classico movimento a caselle, abbiamo già modo di constatare la semplicità delle regole e dell’interfaccia: il personaggio, abbiamo detto, è definito da tre soli parametri numerici; nonostante la possibilità di reclutare compagni per via, fino a un party di tre elementi, l’inventario è unico e accessibile dalla schermata principale (a onor del vero, però, la rappresentazione in forma di una sola fila scorrevole di slot per gli oggetti lo rende alla lunga di difficile gestione, contando che deve ospitare anche tutte le armi da lancio disponibili) e non ci sono specificazioni di classe pur essendoci le classi stesse. Ogni personaggio dispone infatti di tre barre corrispondenti alle tre classi — guerriero, mago e ladro — con un’indicazione del livello raggiunto (si parte da 1 per tutte e tre) che si accrescono man mano che compiamo azioni corrispondenti, secondo un sistema ad allenamento che ricorda quello di Dungeon Master: colpire i nemici con armi da mischia accresce la barra del guerriero, flagellarli con incantesimi accresce quella del mago, e bersagliarli con armi da lancio o da tiro accresce quella del ladro, classe cui è connessa anche l’abilità di scasso. Com’è ovvio, ad ogni riempimento di una delle barre corrisponde la relativa salita di livello. Ogni personaggio gode tuttavia di attitudini di partenza tali che il progresso in ciascuna classe dà luogo a incrementi disomogenei; così che, ad esempio, da un avanzamento nella classe del mago Conrad riceverà più benefici rispetto a Michael ma meno rispetto ad Ak’shel, che a sua volta non sarà un guerriero all’altezza dei primi due a parità di livelli acquisiti.
Molto agile altresì la gestione della magia: basata sulla spesa di punti magia che si rigenerano col tempo, richiede di scegliere l’incantesimo da una pergamena comune a tutto il party e le cui voci aumentano in corso d’opera (inizialmente abbiamo solo il debole incantesimo offensivo Spark, cui segue a ruota una cura), dopodiché non resta che sceglierne il livello di potenza in una rosa da 1 a 4 (ancora Dungeon Master!), compatibilmente coi punti magia disponibili.
Il più notabile (e criticato) degli alleggerimenti si trova ben presto sotto forma di oggetto: un’automappa che tiene automaticamente traccia dei percorsi già esplorati. L’affidamento ai punti cardinali e a una risma di fogli quadrettati è, con questo titolo, per sempre alle spalle.
Quanto al resto, l’interazione avviene attraverso il clic semplice e il drag & drop già tipico di Eye of the Beholder e di The Legend of Kyrandia e qui esteso anche alla compravendita (la schermata di un negozio richiede di cliccare sugli oggetti che ci interessano, anziché ricorrere ad asettici menu) e, analogamente a quanto accade in quest’ultimo, richiede che le peculiarità degli equipaggiamenti vadano scoperti attraverso la sperimentazione attiva: non che non sia indicato l’aumento di potenziale offensivo quando si imbraccia un’arma o la protezione offerta da un’armatura o da uno scudo, ma solo la prova sul campo ci dice che, per esempio, le apparentemente deboli spade di smeraldo sono ottime per combattere gli spettri, così come l’effetto degli incantesimi nuovi, di quelli inscritti su pergamene monouso e indisponibili altrimenti, e di vari artefatti usa e getta che concedono attacchi speciali. Lo stesso metodo, e la cosa in effetti già risale in forma embrionale a Eye of the Beholder, è richiesto per combattere i nemici e particolarmente i saltuari boss: solo provando e sperimentando si può scoprire a che cosa sono più resistenti e a che cosa più deboli.
L’azione tende a mantenere di fatto gli schemi di un classico dungeon crawler ma tenta un’operazione cosmetica di mascheramento tale per cui vedremo il passaggio da foreste a roccaforti passando per miniere, caverne e paludi sotterranee. Le transizioni da una fase all’altra passano per schermate animate, già utilizzate per le sequenze di interazione con altri personaggi (si vedano le locande e i negozi, che ricordano molto un’avventura grafica in soggettiva vecchio stile), che rappresentano navi in viaggio, imbocchi di caverne e cancelli spettrali da esorcizzare; ma nulla di tutto questo riesce a cancellare la sensazione di una mera progressione in livelli sostanzialmente non dissimile dalla discesa da un piano a quello inferiore tipica del dungeon crawler classico.
Se c’è un elemento distintivo, di gameplay e non più solo di interfaccia, lo si ravvisa nell’enfasi data ai puzzle e alla scoperta di segreti: gran parte di ciò che ci è richiesto per proseguire passa per la pressione di pulsanti in sequenze corrette, l’azionamento di leve e pulegge di ogni sorta, lo sbloccaggio di aree segrete (gran parte dell’equipaggiamento migliore, in effetti, può essere mancato trovandosi in aree facoltative e spesso passa per combattimenti particolarmente difficili), il tutto affidandosi a messaggi sibillini e secondo la stessa logica aleatoria e orientata alla sperimentazione che a suo modo caratterizzava già Legend of Kyrandia. E le accuse di scarsa logicità e di inclinazione allo spaesamento, peraltro, non mancarono dalla critica d’epoca neppure per Lands of Lore: particolarmente per ciò che pertiene la famigerata White Tower, zeppa di combattimenti durissimi che diventano una passeggiata se conserviamo un oggetto specifico, che è però possibile sprecare altrove senza che la necessità di trattenerlo risulti la minima evidenza; per non dire delle fasi finali nel complicatissimo Castle Cimmeria, causa dell’arenamento di più di un giocatore. I pareri furono più accomodanti giusto nella misura in cui queste erano ancora ritenute caratteristiche accettabili, se non perfino canoniche, all’interno del genere.
Per finire, la rosa di personaggi reclutabili denota scarsa elasticità: dopo gli avvicendamenti iniziali ci troveremo a usare gli stessi due compagni per buoni due terzi del gioco, il thomgog Baccata e il capo delle guardie reali Paulson, e nessuno dei due si dimostra particolarmente versato per la magia. Se non è il protagonista a metterci una pezza, bisogna rassegnarsi a farci poco affidamento.
Lands of Lore, da ottimo e giustamente elogiato titolo qual è, a posteriori resta sospeso tra novità e tradizione; tra una svolta avventurosa che era già nell’aria all’interno del genere, e che Westwood teneva visibilmente a sviluppare, e un assestamento nei binari del dungeon crawler classico da cui le scosse introdotte non riescono a scalzarlo, quasi frenate da un engine a caselle che proprio con questo titolo, con il progresso tecnologico che gli vorticava intorno (e che assume, tra l’altro, un nome piuttosto circostanziato: Ultima Underworld) e con le sue texture che da sole non riescono più a persuadere, se mai lo hanno fatto, che siamo in una foresta e non in un dungeon, inizia a mostrare i segni della vecchiaia.
Col seguito la svolta verso l’adventure sarà invece pienamente compiuta. Ma prima dovremo tornare a Kyrandia.
L'avventura secondo Westwood 1: The Legend of Kyrandia — marzo 2009
L’invio precedente era involontario, e non volevo neanche cominciare con questo. Ma eccoci qua. Avevo provato un po’ di giochi retro dei Westwood Studios, storica casa di Las Vegas dalla filosofia all’insegna delle interfacce minime e dei sistemi di gioco occulti. Erano anni difficili per me, depressi se non proprio disperati, e tentare l’impresa di uno …