Leveret; Nickel Creek; Tasto Solo [Dischi '23 #7]
Camerismi, folk inglese al gusto di aerofono, la superiorità ontologica del bluegrass e caso vuole che stavolta le copertine virano tutte sul marrone
Facciamo nuove prove coi titoli, e vediamo. Fatemi sapere, eventualmente.
Eros & Subtilitas: Capricci, Madrigali e Danze in Dialogo — Tasto Solo; Guillermo Pérez (Alia Vox, 2023)
Cominciamo con un fantastico ensemble cameristico, il Tasto Solo, fondato e guidato dall’organettista e direttore Guillermo Pérez da Barcellona. L’idea alla base è quella di un recupero rispettoso e creativo di repertori del XIV e XV secolo con una formazione raccolta, che comprende, oltre a Pérez col suo organo portativo, anche clavicembalo e arpa rinascimentali e ricostruiti, liuto e, infine, viola bastarda, cioè alterata per servire il registro di baritono. Il gruppo è qui al quarto disco (per i precedenti raccomando soprattutto il recupero dell’appetitoso Early Modern English Music: 1500 -1550), con formazione allargata comprendente due voci, il soprano Anne-Kathryn Olsen e il baritono nostrano Riccardo Pisani, e che spettacolo!
L’offerta si compone di brani profani nello stile franco-fiammingo, specialmente con composizioni di Vincenzo Ruffo (proprio sua la deliziosa apertura de La Gamba), che operò a Verona e Milano dopo aver padroneggiato lo stile, e pezzi anonimi tratti dal Manoscritto di Castell’Arquato, cui si aggiungono altri nomi come Philippe Verdelot,
Jacques Arcadelt, Clement Janequin, Jhan Gero e Domenico Ferrabosco. Il gruppo gioca a variare sullo stesso materiale e sull’interazione tra strumenti e voci, all’epoca in via di rivoluzione, con gli strumenti che perdono via via il loro ruolo subordinato (si prenda a esempio Dormendo un giorno di Verdelot, riproposto a una voce e poi senza, fino a sbocciare nella spettacolare versione a due voci), ciò per mezzo di esecuzioni brillanti e misurate, mai eccessive; semmai rischiando talvolta di cadere nel difetto opposto, in un po’ troppo rattenimento; tenendo fede al titolo si propongono testi amorosi in un contesto, appunto, sottile, con sussulti più che con sbalzi, anche tramite episodi ballabili (i Saltarelli in Re e in Ut, cioè in Do, su tutti). Per scoprire un repertorio poco noto come quello del medio Rinascimento, non si guardi oltre — anche perché dopo, ribadiamo sempre, è tutta decadenza fino ai recuperi del Novecento. Oh, si scherza! ma dirlo seriamente è una tentazione.
Forms — Leveret (2023)
Mi ero già occupato di Sam Sweeney, prodiglio del fiddle anglo, scrivendo due righe sul suo Solo dell’anno scorso; ma non va scordato il precedente e sensazionale Unearth Repeat. Il nostro è prolificissimo e ancora l’anno scorso aveva bissato col solare Escape That, che ammetto di aver trascurato perché il tempo non mi bastò e perché contavo di riparlarne presto (e infatti eccoci qui) — ma ad ogni modo non ne avrei detto benissimo; per quanto esaltato dalla critica isolana l’ho personalmente trovato un po’ troppo gigione, e un passo indietro rispetto ai due precedenti.
Ora Sweeney torna alle origini col gruppo che gli ha dato la fama, i Leveret, un trio che si completa con due aerofonisti, Andy Cutting al melodeon (la fisarmonica a bottoni molto usata in Irlanda) e Rob Harbron alla concertina. Il gruppo, in pausa per del bel tempo, arriva qui a festeggiare il decennale dalla formazione, e ci vuole coinvolgere. La combinazione di strumenti è classica e serve allo scopo di un folk basato su repertori sette-ottocenteschi, senza voci e pienamente inglese (a partire dall’iconografia geometrica in cui ricorre, appunto, il leveret, cioè il leprotto), brillante e cristallino, sostenuto da una qualità dell’esecuzione massima, con grande senso della pulsazione, precisione e buone dosi di calore; oltre che da inclinazioni improvvisative (se devo raccomandare un solo recupero, è senz’altro quello dell’ipnotico Variations Live).
Si parte con due bei pezzoni, il trascinante inseguimento di temi di Bass Hornpipe (dal manoscritto del reverendo Thomas Cowper del Westmoreland) contrastato subito dalla dolce e ballabile Filberts (un originale di Harbron). La parte centrale vede una cornucopia di medley infarciti di tradizionali e originali, tornando poi a tradizionali di classe come Cotillion e A Good Hornpipe. Si chiude in bellezza con un episodio dalle raccolte di John Playford, Mr Lane’s Minuet, con uno Sweeney al massimo. Da segnalare anche la registrazione, così pulita che si sente anche la pigiatura dei tasti degli aerofoni. Siamo ben distanti dai territori sporchi dei Lankum e qualcuno sentirà forse la voglia di cose più sanguigne e materiche; ma per la vostra dose quotidiana di Albione bucolica, puntate da questa parte — lasciando stare il leprottino, e dai, è così tenero.
Celebrants — Nickel Creek (Repair / Thirty Tigers, 2023)
Il trio che regna sul bluegrass progressivo torna quest’anno, dopo del bel tempo — sono ben nove anni dal precedente A Dotted Line (cui aggiungere il Live From The Fox Theater, di pubblicazione recente ma che testimonia di un concerto di allora); i nostri sono così, hanno le loro cose da fare e si riuniscono quando ne hanno voglia, come è giusto e sano che sia. Abbiamo sempre loro, Chris Thile che con i Punch Brothers ha già dimostrato ampiamente la funzione del bluegrass, migliorativa rispetto a tutto il pop e al rock di questo mondo (vi ho detto dell’ultimo Hell on Church Street nella puntata della newsletter che ho linkato sopra, coincidenza di cui non mi ero accorto affatto) ed è ormai una specie di nume tutelare del mandolino, con cui, nei concerti dei Punch Brothers, esegue abitualmente trascrizioni di J. S. Bach; la sempre solida e sottotraccia chitarra di Sean Watkins, di cui continua a sconcertarmi l’imbolsimento (era uno gnoccone! che diamine); e la funambolica violinista Sara Watkins, dall’interessantissima carriera solista (specie con Sun Midnight Sun e con l’ultimo, bizzarro Under the Pepper Tree, a base di riletture di canzoni della sua infanzia dall’estrazione più diversa), per non dire dell’esperienza col supergruppo I’m With Her assieme a Sarah Jarosz e Aoife O’Donovan. Al trio riunito si accoda a titolo di turnista il contrabbassista Mike Elizondo, come da tradizione.
I Nickel Creek festeggiano e lo fanno, in sostanza, con un incredibile sfoggio di mezzi, una pirotecnica — e non sempre priva di affettazione, bisogna dire — messe di virtuosismi e trovate: messo quasi del tutto in soffitta il suono dei primi due dischi, Nickel Creek e This Side, così incentrati su canzoni paffute e melense [1] (ponendo più di una pietra dell’edificio che oggi conosciamo col nome di Americana, volendo) qui si parte dai due successivi espandendo e risultando in un bluegrass-prog al fulmicotone, come sempre esistenzialista e per niente truce come spesso è il genere (niente fatti di sangue raccontati ridendo, da queste parti), infarcito di variazioni, dissonanze, impasti vocali più diffusi del solito (la loro tendenza precedente ad alternarsi alla voce solista in brani diversi sembra quasi dimenticata in favore della dimensione corale) e un affiatamento strumentale che regge il tutto quasi da solo, per quanto è sviluppato. I pezzoni abbondano, dalla title track percussiva e colma di sorprese passando per il trotto di Strangers, la dissonante eppur cullante The Meadow, la Watkins scatenata di Where the Long Line Leads e una strana alternanza di brevi interludi. Il disco è strabordante e di conseguenza imperfetto, con un vistoso afflosciamento intorno ai tre quarti, salvo riprendersi alla grande in coda con l’esaltante martellamento di New Blood e la conclusiva Failure Isn’t Forever, con cenni di ritmi caraibici se non ho le traveggole (e le posso benissimo avere). In complesso non è proprio equilibrato, ma è un viaggione spassoso. Divertitevi!
[1] Entrambi pregi da queste parti, a scanso di equivoci.
Fatta; cercherò di essere, come dicono i giovani, più produttivo (argh, scriverlo è stato tremendo!). Maggio si profila ancora abbastanza impegnativo, ma dovrei farcela, e credo sarà latore di sorprese che vedrete a tempo debito. Ho poi buone speranze per l’estate.
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Per finire, col tempo dovrei iniziare finalmente a divagare dai dischi e a differenziare l’offerta. Alla prossima, dunque.