Questo è l’altro mio pezzo su Ultima, ben dieci anni dopo: in mezzo un lunghissimo iato in cui ebbi altro da fare che scrivere di videogiochi — e durante il quale gli spazi che mi avrebbero accolto e che avrei gradito erano venuti a mancare, o io non ero riuscito a trovarli.
Il sito su cui l’avevo pubblicato era GeekGamer.it, con cui collaborai in modo molto saltuario prima che chiudesse — ora il dominio è stato acquisito da persone diverse, che non conosco e che non hanno accesso al materiale apparso sotto la gestione precedente. Per riproporre l’articolo qui sono partito dalla mia bozza, al netto quindi dell’editing esterno cui era stato sottoposto allora.
Il taglio è un po’ diverso rispetto alla retroreccy di Ultima VIII: qui volli essere più, diciamo, divulgativo sulla serie nel suo complesso, così mi dilungai di più.
Premessa: visto che si parla di Marte, si sappia fin d’ora che qui la questione degli spoiler è superata di slancio con un perentorio e virilissimo “Me ne frego!”. Ora, sotto con la retrospettiva.
Origin Systems, al suo tempo più glorioso fra gli anni ‘80 e ‘90, fu una casa molto impegnata nell’avanzamento innanzitutto tecnologico del gioco su computer: in quei tempi pionieristici in cui non si era circondati come oggi da tecnologie mature, per non dire esauste, c’erano sempre dietro l’angolo una nuova soluzione o un nuovo engine capaci di determinare pressoché da soli l’aspetto e la presentazione di un titolo, quando non di aprire possibilità di design completamente inedite (pensate solo ai problemi di risoluzione e memoria legati all’inserimento di testo in game, oggi solo un lontano ricordo). Chi ha vissuto quell’Era del Caos, come nemmeno a Britannia quando il Guardiano ci mise gli occhi sopra, ricorda quanto fosse frustrante che ogni nuova uscita di Origin richiedesse la macchina più aggiornata del momento. In particolare Richard Garriott, la mente dietro la serie ruolistica di Ultima, dopo Ultima V: Warriors of Destiny si fece un punto d’onore di creare un engine tutto nuovo per ogni nuova uscita della serie. Nientemeno! E mantenne sempre la promessa, fino alla rovina — ma questa è un’altra storia. Nacque così Ultima VI: The False Prophet, il primo della serie ad eliminare la distinzione tra mondo dall’alto e dungeon in soggettiva e a presentare l’intero ambiente di gioco con visuale a volo d’uccello e disposto in strati differenti, tutto in una sola scala.

La scelta, agli occhi di oggi così bizzarra, di Garriott allungò i tempi di gestazione di ogni nuovo episodio, in una misura tale che la fame dei giocatori andava soddisfatta altrimenti. Fatta la legge, trovato l’inganno: se ogni episodio della serie Ultima era vincolato a un nuovo motore, ciò non valeva per eventuali espansioni e spin-off. Nacque così l’idea di quelli che in USA si chiamavano Worlds of Adventure e in Europa Worlds of Ultima: avventure create col motore dell’ultimo episodio di Ultima in cui l’Avatar risolve problemi in mondi privi di legami con Britannia, e ispirati piuttosto a diversi filoni di romanzo d’appendice.
In realtà il progetto impiegò poco ad arenarsi, dato che in seguito Origin ebbe a disposizione un motore 3D avveniristico con cui creò la serie di Ultima Underworld, impostasi come spin-off per eccellenza, e più tardi ancora la casa divenne cibo per Electronic Arts, che oggi ne usa il nome per una piattaforma online esibendo un gusto vagamente necrofilo. Sotto l’insegna di Worlds of Ultima fecero in tempo a uscire due avventure col motore di Ultima VI: il burroughsiano The Savage Empire; e una piccola ode allo steampunk di cui or ora parliamo: Martian Dreams, appunto.
Altro giro, altro immaginario
In Martian Dreams lo steampunk viene fuso al tema dei viaggi nel tempo e inteso in un senso preciso, legato alle origini del filone e diverso da quello più camp, quella specie di fantasy affastellato di vapore e ingranaggi con cui di solito lo conosce il grande pubblico. L’Avatar, in compagnia del prof. Spector (ovvero il game designer Warren Spector, salvato dalla pazzia in The Savage Empire) usa infatti la pietra lunare di Britannia per viaggiare nel passato, in un 1895 alternativo, seguendo delle istruzioni dello stesso Spector che le avrebbe scritte da quel passato, a cose fatte, e proprio per innescare gli eventi. Tale 1895 è caratterizzato dal fatto che alcune delle congetture scientifiche più avventurose dell’epoca si sono rivelate vere: segnatamente, Marte è davvero solcata da canali artificiali, e fu abitata da creature intelligenti e dotate di tecnologia avveniristica. I nostri eroi fanno tutto ciò per rispondere a una convocazione di Nikola Tesla che, quando incontra i nostri eroi, ancora non l’ha scritta. E Tesla è solo il primo di una pletora di personaggi storici presenti nel gioco, come vedremo presto.
Scopriamo così che nel 1893 venne approntato un supercannone come quello del film di Meliès — su progetto del professor Percival Lowell, l’astronomo che a lungo si occupò dei canali di Marte — capace di sparare una cabina per un equipaggio esplorativo con la forza della flogistonite (in questa realtà, non si butta nemmeno il flogisto!); se non che un sabotatore lo fece sparare in anticipo, il giorno dell’inaugurazione, mentre la capsula era piena di vips convocati da Lowell. Due anni dopo Tesla appronta dunque una spedizione di soccorso coi più duri tra i duri, e l’Avatar — stavolta uomo o donna, ma sempre wasp — si accoda.
Una cosa che si nota fin dall’inizio è lo sforzo di virare il sistema di gioco verso lidi più da adventure, rendendo le informazioni ruolistiche più occulte del solito. Così, la creazione del personaggio vede, al posto della classica zingara di Ultima, un test della personalità fattoci da Sigmund Freud, anche lui membro della spedizione, il cui influsso sulle statistiche del personaggio è perlomeno nebuloso. E a gioco iniziato scopriamo presto che ad essere occulte sono anche le informazioni su accessori e armi, con queste ultime che chiariscono il proprio funzionamento solo dopo una prova. A prevalere sono le armi da fuoco, a colpo singolo o ad area, come lo scomodissimo fucile a pallettoni che spara incontrollabili coni di pallini. Quanto agli abiti, questi serviranno soprattutto contro il freddo becco marziano.
Il gioco inizia dopo l’atterraggio su Marte, con l’imbonitore il dottore autodidatta Charles Lewis Blood che ci fornisce le prime pasticche all’oxium, che liberano ossigeno quando masticate e che ci servono per evitare di venire indeboliti dall’aria rarefatta del pianeta rosso. In seguito il dottor Blood fungerà da hub a cui ricorrere per curarci. Il nostro gruppo iniziale, ed espandibile, si compone di Spector, capace di dirci qualcosa di sensato sulle tecnologie che rinverremo (non vi fa sorbire Epic Mickey, tranquilli) e dell’eroina del giornalismo d’inchiesta Nellie Bly; poco dopo possiamo unirci all’immaginario tenente Dibbs dell’esercito di Sua Maestà la Regina, membro della vecchia spedizione e buon combattente. Ogni personaggio è definito dai classici punteggi di forza, destrezza e intelligenza da cui deriva tutto il resto. L’intelligenza, di solito deputata a decidere dell’attitudine magica, qui cambia funzione perché di magia non ce n’è: al suo posto abbiamo dei poteri psionici, come telecinesi e psicometria, legati al consumo di speciali bacche marziane.
Come da tradizione della serie, le funzioni fondamentali non sono affidate a menu ma come vissute nel gioco; e così, per esempio, possiamo sapere che ora è nel gioco esaminando il nostro cipollone, la posizione delle diverse locazioni di gioco ci viene fornita in forma di coordinate e il quest log è tenuto da Nellie, che prende appunti su tutto con solerzia giornalistica e che possiamo interrogare in ogni momento. Le coordinate forniteci da Tesla — che si occupa anche delle comunicazioni con la Terra in codice Morse, attraverso dei riflettori — rendono poi il gioco relativamente lineare: la mappa è libera, ma non ci manca mai un’idea chiara di dove si debba andare. Se vi sembra che somigli a tanti open world moderni, è proprio così.
Nel corso dei nostri viaggi incontreremo le vittime del sabotaggio, che vanno a comporre un simpatico carosello d’epoca: fra gli altri abbiamo Lenin, Madame Curie, Thomas Edison (che non manca di spiegarci quanto è cialtrone il suo acerrimo nemico Tesla), un Theodore Roosevelt ancora lontano dalla candidatura alla presidenza degli Stati Uniti, un William Randolph Hearst versione trafficante in armi, Mark Twain, Wyatt Earp e Rasputin; oltre a Buffalo Bill e Calamity Jane, naturalmente. E troveremo anche tracce della tecnologia marziana — ovviamente è tutto sottoterra, per questo da qui non si vedeva niente, malfidati che non siete altro! — nella forma di automi e, soprattutto, delle macchine oniriche, accrocchi capaci di farci entrare, letteralmente, nel Mondo dei Sogni — occasione perfetta per inserire quelle locazioni surreali che ispireranno anche le fasi finali di Ultima Underworld.
Scopriamo così che i marziani, creature geniali a base vegetale (e che ci definiscono “vermi” perché tanto permettono le loro tassonomie), si erano estinti a causa di un veleno sviluppato e diffuso da un aspirante tiranno millenni prima. Alcuni di essi riuscirono a trasferire le proprie menti nel Mondo dei Sogni; compreso però il nostro despota e i suoi seguaci, che vogliono usare le macchine per incarnarsi nei corpi degli umani e ricominciare daccapo — al nostro arrivo il capo dei cattivi si è già preso Rasputin. Un lavoro per l’Avatar, cui stavolta toccherà combattere il male in sogno, dove vigono altre leggi, e così lo steampunk fa tutto il giro e torna nei lidi del cyberpunk, con un surrogato del cyberspazio. Alla fine i marziani buoni si incarneranno in automi umanoidi per scendere sulla Terra, le vestigia della loro civiltà verranno spazzate via nel corso del secolo a venire, e per la sonda Curiosity non resterà neppur un corno.
L’interfaccia è quella, relativamente più comoda delle precedenti, di Ultima VI, coi verbi da selezionare e le azioni eseguibili entro gli otto tile che circondano il personaggio — e alcuni organi vestigiali alquanto atroci, quali i dialoghi gestiti ancora mediante parser (ci sono dei termini notevoli, evidenziati nei dialoghi stessi, di cui possiamo chiedere digitandoli) e l’impilamento degli oggetti uno sull’altro; qui invero più sopportabile che nel capostipite, in cui si perdevano minuti solo per smistare il loot dei mostri uccisi — le creature ostili da affrontare sono peraltro meno, nella forma soprattutto di bestie, di nuovo, a base vegetale. Continua a non avere sorte migliore la gestione dell’inventario; e l’interfaccia nel suo complesso continua a essere lo scoglio più duro per godere del titolo oggi. Se il tutto è più sopportabile che in Ultima VI è solo perché, come già detto, la componente ruolistica e di equipaggiamento è messa in ombra dall’aspetto avventuroso, e in effetti quel che ci troviamo di fronte è più simile a un’avventura grafica con farraginosità extra che a un RPG a pieno titolo. Se vogliamo, quel che Origin andava cercando coi Worlds era un approccio che, oggi, taluni appassionati definirebbero ‘più casualone’.
Martian Dreams è un titolo straordinario e soprattutto, come le macchine oniriche su Marte, è quel che resta di un mondo videoludico di inusitata libertà creativa, ancora lontano dall’adagiarsi su due o tre ambientazioni in voga alla volta, capace di correre rischi e cercare di stupire. Con tutta la palta di cui si fa il remake in HD (e considerate ogni riferimento come intenzionale, il mio snobismo lo conoscono anche su Marte, dopotutto) sarebbe anche ora di riproporlo in una versione rinfrescata, se solo EA non fosse precisamente il regno del male che si ritiene sia. Ad ogni modo, il gioco originale è disponibile gratuitamente in emulazione su GOG [ai tempi della pubblicazione originale dell’articolo era ancora a pagamento e con un link diverso, ho aggiornato di conseguenza, ndr].