A dare risonanza e lustro al trad d’Eriu negli ultimi anni è stato senz’altro il supergruppo The Gloaming. Latrice di un approccio, appunto, crepuscolare, posato, cameristico e romantico (a tratti, e specialmente negli episodi più tardi, al limite del salottiero, bisogna dire), la formazione nacque come un’estemporanea collaborazione fra primedonne del filone e non solo: l’Irlanda era rappresentata da Iarla Ó Lionáird, il maestro dello sean-nós reso famoso dalle produzioni Real World (se ne servì Peter Gabriel spesso, per esempio impiegando la sua voce nella controversa operazione OVO) e una delle voci maschili su cui non vi so fare proprio mezzo appunto; Martin Hayes, il virtuoso del fiddle in stile misto [1]; e Caoimhín Ó Raghallaigh col suo hardanger d’amore droneggiante (vi descrissi lo strumento raccontandovi del Lodestar Trio). A completare la formazione si aggiungeva una componente statunitense, col pianista Thomas Bartlett mai prestato prima al folk, e Dennis Cahill, provetto turnista che con la sua chitarra sosteneva, in tutti i sensi, l’operazione.
Per il folkofilo resta indimenticato il disco omonimo del ‘13, The Gloaming, che seppe proiettare sulla scena internazionale una proposta così inusitata, per di più col cantato esclusivamente in irlandese, grazie a una sofisticazione del repertorio che riusciva a mantenerlo pienamente riconoscibile e a una coesione delle parti tale che l’ascoltatore si ritrova irrimediabilmente agganciato al brano persino di fronte a soluzioni apparentemente elementari (su tutte la sussurrata e pedalata Samhradh Samradh); il tutto soffrendo giusto un po’ di eccesso di levigatura, che consegnava le versioni live a un’inevitabile superiorità. Ne seguì un tour notevolissimo col senso di un unicum che andava a finire, per un gruppo con troppi cervelli al suo interno per tenersi insieme a lungo (la memoria celtomane corre alle tensioni che hanno sempre percorso i leggendari Planxty); salvo che, a sorpresa, il fenomeno riesplose con The Gloaming 2 del '16, del tutto all’altezza del precedente se non più efficace negli episodi strumentali (stupefacente lo sviluppo di Mrs Dwyer, per esempio, forse il loro strumentale che preferisco). Segue il Live at the NCH, per le ragioni suddette il vero pezzo forte della discografia, e il lungo crepuscolo pre-pandemico (A.D. 2019) di The Gloaming 3, segnato dall’ambiziosissimo Meáchan Rudaí (The Weight Of Things), brano costruito a partire da una poesia di Liam Ó Muirthile e dall’avanguardismo più spiccato che in precedenza (notevole soprattutto il recitativo di Iarla), ma che va ad aprire un disco ormai tendente a ripetere quanto già rodato in precedenza. Al quale resto comunque grato perché segnò l’arrivo dei nostri a Verona, nella sola data italiana che abbiano mai fatto, dove ebbi il piacere di sentirli dal vivo. Gli anni che separavano i tre dischi, nonché i successivi, hanno visto i membri capitalizzare su quanto ottenuto in progetti distinti, e a dire il vero decisamente frequenti — si segnala in particolare Caoimhín Ó Raghallaigh and Thomas Bartlett, addirittura uscito lo stesso anno di The Gloaming 3, e che mandò in visibilio la critica (un po’ meno me, che ci ho sempre sentito più maestria strumentale che grandi idee, ma tant’è). Che il gruppo si riunisse non sembrava più contemplabile; e a suggellare il tutto è stata, l’anno scorso, la dipartita di Dennis Cahill, senza il cui coordinamento la storia di The Gloaming è proprio finita.
In tutto questo non ho ancora detto di questa nuova uscita di Hayes, dedicata proprio all’amico scomparso. Per l’occasione viene messa insieme una formazione eterogenea salvo che per, appunto, un “terreno comune” dato dalla tradizione di riferimento — oltre a Hayes abbiamo Cormac McCarthy del Cottage Evolution al piano (il romanziere non c’entra niente), Kate Ellis del sempre ottimo Crash Ensemble al violoncello, e Brian Donnellan, vecchio collaboratore di Hayes, al bouzouki e aerofoni (del lotto, il musicista più strettamente trad). La proposta è quella di un’infilata di tradizionali tutti strumentali e proposti in un arrangiamento altamente sofisticato, con omaggi generalizzati alle colonne del genere da che esiste l’industria del disco: così ecco una versione più posata e al sapor di avant-garde di quella The Longford Thinker resa famosa a suo tempo dalla mitica Bothy Band; la particolare Garrett Barry’s Jig che inizia con delle interessanti dissonanze assicurate dalla Ellis, col suo uso percussivo del violoncello; e ci facciamo un viaggione in finale col medley finale della riconoscibilissima Toss the Feathers abbinata a The Magerabaun Reel. Più melanconici episodi come Aisling Gheal, la dilatata The Glen of Aherlow, e Cá Bhfuil An Solas, una piccola gemma di sua maestà Peadar Ó Riada, che l’aveva suonata assieme a Hayes e Ó Raghallaigh coi Triúr di una decina di anni fa [2].
Tutto bene quindi? Be’, voglio essere obiettivo o almeno provarci: Martin Hayes, qui, sembra essersi messo in testa di fare The Gloaming 4, giusto evitando di cercare un sostituto di Iarla perché tanto non può esserci; e se all’ascolto il risultato può anche riuscirmi più che piacevole, devo constatare che Hayes sembra proprio essersi accasciato e che il discorso musicale sul tradizionale rielaborato, dopo questo Peggy’s Dream, non va avanti di un passo. Va anche bene così, dopotutto è un omaggio, e un divertimento tra musicisti diversi che immagino se la siano goduta un mondo; ma per iniziare qualcuno all’ascolto raccomanderei di partire da altro, a partire da quei capostipiti che vi dicevo e che si pregiano — e non è poco, per niente — del cantato di Iarla: il quale ha fatto delle gran belle esibizioni col chitarrista Aussie Steve Cooney e ancora non ha pubblicato niente, benché sarebbe la cosa che sarei più curioso di sentire tra quelle germinate da quest’avventura. Dateci tuttavia un’orecchiata, tenendo conto che per un saggio dell’Eire che avanza è meglio dare la precedenza, che so, a un False Lankum (proprio sparato a caso, oh, sì).
Potete sentire il disco qui in fondo, via Bandcamp.
[1] Nel violino classico l’arcata cerca di creare un effetto vibrato la maggior parte delle volte, se non c’è bisogno di un effetto specifico (la cosa decade un po’ nelle composizioni contemporanee, ma avete capito cosa intendo). Nella musica tradizionale l’arcata del fiddle è invece “dritta”. Hayes fa, appunto, una cosa a metà.
[2] Mal di testa? È un effetto dell’elemento più spiccato che il folk e la musica tradizionale hanno in comune col jazz: l’estrema fluidità ed estemporaneità delle formazioni.