Piffero Reportage: James Yorkston e Nina Persson al BASE, Milano, 10 settembre 2023
La melanconia, il folk e il casual
Nonostante la situazione finanziaria non rosea (amo la litote), non potevo farmi sfuggire l’occasione: ogni volta che qualcuno degli artisti di cui scrivo viene nel nostro paese avverto come il senso di un evento storico. In particolare James Yorkston e Nina Persson hanno organizzato ben quattro date italiane per promuovere The Great White Sea Eagle, bel disco melanconico suonato con la Second Hand Orchestra. Ma per questo vi rimando a quel che raccontai allora, nel link qui sotto.
Il pubblico non abbonda dopotutto, e quindi i due sono passati per l’Italia rapidissimamente per quattro date consecutive di fine estate, quando non si è più tanto in ferie ma si è ancora un poco festaioli: dopo Roma, Pesaro e Marostica eccoli a Milano, al BASE, spazio polifunzionale — con sale conferenze, alloggi, spazi per corsi ed eventi, bar e, infine, cortile (pardòn, Courtyard) dove si è svolto il tutto — e di ispirazione razionalista con cui la città cerca di farsi Mitteleuropa (e piuttosto comodo da raggiungere dal mio antro, per quel che vale). Con fanciullesca ingenuità annunciai la mia presenza a mezzo social suggerendo che ci sarebbe stata anche la Second Hand Orchestra, ma bastava leggere bene per capire che no, ci sarebbero stati solo i due, e lo realizzai tipo il giorno prima — potrei anche giurare su una pila di bibbie che in effetti mi pareva strano, ma si sa come vanno queste cose. Ad ogni modo, il BASE ha inserito il concerto in coda a una rassegna sul tema della malinconia, di cui, pur melanconico, non ho assistito a nient’altro.
Concerto debitamente breve e inizia a un’ora perfetta, 21:30. Si desina leggero, si mette la tenuta da folkettaro con la fantastica maglietta di Cinder Well con la selkie e si va.

Il palco è bizzarramente montato attorno a un albero, e davanti ai tavoli del bar all’aperto; ci si siede liberamente per poi venire controllati verso l’inizio del concerto. Prendo una cervogia di presenza e mi piazzo, ovviamente, davantissimo. Al tavolino si siedono altre due persone in attesa, creando una circostanza strana ma non spiacevole in quest’epoca in cui passa per bello stare da soli a far tutto (e sono arrivato a dirlo io che sono più introverso di Edward Mani di Forbice). L’ambiente è così raccolto che, svariati minuti prima, dietro a transenne improvvisate, vedo Yorkston in persona col berretto d’ordinanza. Set semplicissimo, con tastiera e microfono annesso, chitarra discosta e due microfoni per la postura eretta (uno per Nina, l’altro per Pel di Carota quando passa alla chitarra). Mi dà una punta di, appunto, melanconia pensare all’orchestra, ma mi persuado presto che la forza delle canzoni basterà (spoiler: sì, basterà). Le casse ingannano l’attesa cercando di “fare Caledonia”, con scelte, devo dire, commendevoli: si sentono tradizionali per voce sola e, a sorpresa, Dick Gaughan. Ben fatto.
Le star entrano in orario (tanto le avevamo viste tutti) e si dimostrano subito molto alla mano, con battute e scherzi col pubblico molto garbati, da padri e madri di famiglia quali sono ambedue — si motteggia sulla cassa spia di James da alzare un po’, sul bell’albero sul palco e sulle formiche che percorrono la pianola, sull’accoglienza in Italia che, giurano, non è da meno di quella ricevuta in Spagna, e così via. Gli apici del fenomeno sono l’inserimento in un brano dell’imprevisto ingresso del walkie-talkie della sorveglianza e, a metà circa, una divagazione sulla sosta a Bassano del Grappa quella mattina, nel mezzo di un raduno degli alpini, con tanto di canzone sull’argomento improvvisata lì per lì — da rifinire ma per niente malaccio, a testimonianza di che razza di autore è Yorkston. I due sono in formissima anche fisicamente, specialmente Nina, e in tenuta sportiva, con quel casual nordico che, da buon homo selvadego, difendo a spada tratta e rivendico fiero.
La tastiera passa dal registro di piano a uno di organo e, come si diceva, James passa poi alla chitarra per altri pezzi, col suo stile a base di percussività e continui arpeggiati, ancorché non proprio precisissimo (ma lo sapevamo già). Ottime le voci; Nina Persson ha proprio lo stile che dico io, disadorno, preciso, ben emesso e al servizio completo dei brani; persino James, sempre piacevolmente ruvido, mi risulta meglio del solito, moderando quel calantino che gli scappa alle volte (chiamatemi rompicoglioni e abbasserò il capo). Nina è poi la frontwoman della situazione, sensibilmente più sciolta del compagno.
Il repertorio prevede un solo inedito proprio all’inizio, la ballabile With Me With You, cantata da Nina con James al piano. Il repertorio pesca prevedibilmente moltissimo dal disco fatto insieme ma comprende diversi inserti da The Wide, Wide River, dove Nina non c’era e dove si inserisce qui negli impasti vocali, che dopotutto c’erano. Spiccano ovviamente le ballatone melanconiche, come A Sweetness in You che arriva per seconda, poi (in ordine sparso) An Upturned Crab, preceduta da considerazioni su come, da musicisti, spesso gli manchino i momenti persi coi figlioli, la struggente Mary (prima della quale Nina ci chiede se conosciamo il Natale), Sally and Jeanie McGregor per la quale ci invitano a unirci al “da-ra-ra” del ritornello; poi ancora brani più mossi come Peter Paulo Van Der Heyden, A Hollow Skeleton Lifts a Heavy Wing e The Heavy Lyric Police. Il pezzo forte & strappacuore The Harmony è usato per chiudere il main set, prima del rito consueto dell’uscita e del ritorno. Tra i brani del disco prima si segnalano la tesa e bellissima Ella Mary Leather (avrei preferito un’esecuzione un po’ più ostinata, ma non lamentiamoci), la paterna mini-hit Struggle lasciata per lo più a Nina, e A Droplet Forms. In chiusura del tutto non poteva che esserci il singolone da cantare insieme, ovvero Hold Out for Love, per la quale Nina ci dà licenza di hold out for quello che preferiamo. Spiace l’assenza di un pezzissimo squisitamente yorkstoniano come There Is No Upside, ma capisco che con questa configurazione è proprio impossibile da rendere.
Come sempre in un buon concerto entro in trance e devo chiudere con una buona passeggiata serale carica di samadhi, e questa sera non ha fatto eccezione. Che dire? Ottimi pezzi, esecuzione di cuore e di testa, e una coppia di artisti, di nuovo, molto alla mano e posati che ci ricordano, oltre che della grandezza del folk e del suo valore di trasmissione prima che di spettacolo, che la melanconia è un nettare e che l’età adulta è la più bella che c’è. Come al solito non venite, ma tanto vi invito ogni volta.
Non ci sono concerti in programma nel breve, per cui dalla prossima uscita si torna ai dischi fino a data da destinarsi. Vi ricordo solo, se avete gradito, di fare un piccolo sforzo per piacermi il post (è una menata ma fa bene all’algorismo), di farmi sapere e di passare parola. Alla prossima!