Piffero Reportage: King Buffalo + Temple Fang al Legend Club, Milano, 15 maggio 2023
Nuova rubrica per chi ama l'avventura!
Ci siamo, finalmente differenzio un po’ l’offerta!
Una caratteristica dei gusti musicali che mi ha preso di divulgare al mondo è che tendo a seguire gente che non viene in Italia: al di là che il problema è, mi par di capire, strutturale e diffuso, nel mio caso risulta più grave, credo, della media. Non aiuta peraltro la mia collocazione cetuale, altresì detto il fatto che sono un poveraccio (ma se volete vi lascio l’IBAN, wink wink).
Fatto è che qualche sparuta occasione capita tuttavia: a Milano, dove sto, il 15 maggio sono venuti a suonare i King Buffalo, terzetto pioniere dell’heavy psych condito di stoner e spazi siderali da Rochester, New York, che già avevo sperticatamente elogiato a proposito del loro ultimo Regenerator. La locazione è stata quella del Legend Club, locale piuttosto raccolto con piacevole area verde esterna e chiosco annesso, nel contesto della rassegna Rock in Park. Il gruppo si è esibito dopo un’altra formazione (stranamente poco segnalata dagli organizzatori), i Temple Fang di Amsterdam, dediti a uno stoner di lungo minutaggio e di cui, a mia vergogna, non sapevo alcunché.
Non potevo lasciarmi sfuggire un gruppone del genere così vicino a casa, e infatti vi fui! e così — visto anche che devo uscire decisamente di più — ne approfitto per inaugurare la rubrica Piffero Reportage, con cui, al suono del medesimo, vi conduco alle mie (spero numerose, lo spero proprio!) avventure sonore omaggiando en passant il compianto Ambrogio Fogar. Cominciamo.
Raggiungo il club con congruo anticipo come mio solito, mi rilasso nella pregevole area verde e ho tempo di bere una cervogia prima che aprano le porte: l’idea è di tentare la mia consueta manovra che consiste nell’entrare tra i primi, minzionare e piazzarmi subito davanti al palco, in una posizione angolata da cui non mi secchino e non mi spingano (nell’attesa leggo pure, che problema c’è). La manovra riesce e sono in posizione privilegiata, sulla sinistra del palco guardando dal pubblico. Il set è pronto per i Temple Fang che aprono la serata; è il segno che si comincia allorquando lo staff piazza dei bastoncini d’incenso dietro agli amplificatori e le luci si abbassano.
L’incenso è di discreta qualità, forse un po’ troppo dolce, ed entra il gruppo, un quartetto che si dispone in modo caratteristico: andando in senso antiorario li troviamo in ordine di lerciume crescente; partendo dal batterista, Jasper van den Broeke, che definirei finanche distinto, passiamo al chitarrista Ivy van der Veer di fronte a me, più giovane degli altri e ancora presentabile, segue il bassista e frontman Dennis Duijnhouwer che mi riporta con inquietudine a Lorenzo Lamas nella serie Renegade, e per finire, più lontano da me, Jevin de Groot, una sorta di Vecchio della Montagna dimentico del consorzio umano. Un rivoletto di sudori freddi mi attraversa allorché mi trovo circondato di riccardoni sovrappeso (uno con tanto di candido codino!) che faranno per lo più osservazioni sul set e le pedaliere per il resto del tempo, e si comincia.

Il gruppo si descrive laconicamente come “Longform Rock from Amsterdam”, e tengono fede a quanto promesso: i cinquanta minuti circa della loro esibizione sono interamente presi da quella che ai miei tempi si chiamava suite, ovvero Grace, in due parti di durata simile, che stanno proponendo in un paio di dischi live di fresca pubblicazione. L’offerta consta di uno stoner urlato e dilatatissimo, quasi un contraltare dei riff serrati e dell’incedere geometrico che ci aspetteranno col gruppo principale. Avrei apprezzato di più se il fonico non fosse stato il solito non-dico-cosa e se non ci fosse stata una frequenza fatale che mi andava a battere dritta sul timpano sinistro, ma per disporre con un po’ di botta ci siamo. In finale osservo van der Veer vantarsi di come quella che hanno fatto fosse “only one song” rimarcandolo col dito indice, e i Temple Fang ci lasciano.
Ci aspetta poi uno spassoso interludio: lo staff smonta le apparecchiature dei Temple Fang — e fin qui — dopo di che sono Loro, i King Buffalo in persona, a entrare a sistemare la loro roba (eccetto la batteria dell’ottimo Scott Donaldson, già pronta su una piattaforma rialzata): pedaliere, ampli e i caratteristici synth a disposizione di Sean McVay (chitarra e voce) e Dan Reynolds (basso), collegati a dei pedalini, che suppongo essere programmabili, per l’emissione dei loro caratteristici bordoni spaziali [1]. La cosa spassosa è che appaiono così, montano, ci salutano, e poi escono di nuovo per fare l’entrata a effetto: a che pro? Ma non ci lamentiamo di certo. Per parte mia son proprio davanti a Sean, caratterizzato da una vistosa panzetta alcolica di sfericità tipica, e sto talmente sotto che riesco a spoilerarmi la scaletta leggendogliela da davanti ai piedi. I nostri escono, attesa spasmodica, le luci si spengono, partono i fumogeni, i nostri rientrano. Si suona.
Dato che dalla scaletta sarebbero inesorabilmente cadute molte teste, stante la mole incredibile di pezzoni prodotta in dieci anni di attività, i Sommi l’hanno cambiata nelle diverse date (qui quella che abbiamo sentito — allarme spoiler). Incredibilmente, però, sono riuscito a prevedere perfettamente l’inizio dello spettacolo: essendo Regenerator — così ragionavo — un concept basato sulla risollevazione dagli umori ossessivi & depressivi del precedente The Burden of Restlessness, avrebbero dovuto aprire proprio con quest’ultimo per rendere l’idea. È andata esattamente così, e coi pezzi che pensavo, essendo i più noti: subito in fila, tra il giubilo del pubblico e mio, Silverfish e Hebetation, preludi a Regenerator subito dopo. Le mie previsioni falliscono poi per il seguito, dato che il gruppo spazia lungo la propria discografia più di quanto avessi supposto e non dà poi tutta questa prevalenza all’ultima uscita (rappresentata in seguito dalle sole Mammoth e Firmament). McVay ci saluta con un bel “Buongiorno, Milano” per la solita cosa che traducono good day direttamente pensando che, come questo, vada bene a tutte l’ore; tra il pubblico qualche genio tira i moccoli per fare colore, e si distingue un giovine alle mie spalle che chiede, indarno, l’esecuzione di Eta Carinae, pezzissimo da Dead Star (solidarietà, fratello! ma avevo letto, e sapevo che non era destino). McVay è costretto a dare istruzioni con voce e gesti al fonico, che il vecchio Nick se lo porti, ed è circa a metà che finalmente riesco a sentire il basso in modo adeguatamente nitido.
Ad ogni modo lo spettacolo prosegue con altri due da The Burden (Loam e The Knocks), Eye of the Storm a rappresentanza di Longing to Be the Mountain, e chiusura con Cerberus (dall’ottima collezione di “lunghi” Acheron). Mi ha stupito l’assenza di un brano dritto e di sicuro richiamo come Hours, e ho trovato che la scaletta avrebbe beneficiato di un momento di distensione (si sarebbe prestata bene al compito Avalon, ma niente da fare); ma sono piccoli nei in un bello spettacolone. Il gruppo chiude con lo stucchevolissimo e inesorabile rito dell’esco-ma-poi-rientro per il bis, affidato all’ossessiva Kerosene, sola a rappresentare il disco d’esordio Orion. Il gruppo ha esattamente la resa che vi aspettate abbia, lo spettacolo è serrato e senza requie e lascia satolli.
Per chiudere col vecchiettismo di rappresentanza, sì, c’erano anche giovani. Non ne ho visti poi moltissimi, ma la composizione demografica del paese questa è.
Per il ritorno a casa avevo tutta una storia su una famiglia di indigenti che mi ama e mi segue da sempre e a cui ho lasciato la mia scarsella colma di pezzi d’argento senza darmene pensiero, ma mi son fatto la newsletter contra Facebook, quindi lasciamo perdere.
E questo è l’inizio di Piffero Reportage, oltre che la prima volta che faccio una cosa del genere — come da protocollo, seguo il mio addestramento personale a non farmi un’opinione su com’è andata. Datemi riscontro e al solito, se vi è piaciuto, fatemi conoscere.
Per l’immediato futuro della newsletter, una congiunzione astrale fa sì che, salvo imprevisti, proseguirò subito con un altro Reportage, su un concerto imminente! Il tono sarà diverso, più autobiografico e melanconico; e se conoscete i miei gusti, tenete conto della mia posizione geografica e vi informate un po’, non credo durerete fatica a indovinare di che si tratta. Alla prossima dunque!
[1] “Bordone spaziale” è un marchio registrato da @AlPiffero, anno Domini 2023.