Piffero Reportage: Peter Gabriel al Mediolanum Forum, Assago (MI), 21 maggio
Dopo un poco di lutto per una particola di me che morì quel giorno
Ne avevo accennato la volta scorsa e, se qualcuno si è sforzato di pensarmi (non poniamo limiti al possibile), sapeva che saremmo arrivati qui. Allora.
Non sto a farla lunga sui fatti più noti: Peter Gabriel sta centellinando le canzoni del suo rimandatissimo i/o durante i cicli lunari che compongono quest’anno. Così, ogni luna piena appare una nuova traccia nel mix della-faccia-chiara (più brillante e a cura di Mark ‘Spike’ Stent), e ogni luna nuova la stessa traccia nel mix della-faccia-scura (più ficcante e a cura di Tchad Blake), dal che possiamo presumere che l’opera completa sarà pubblicata intorno a fine anno; il tutto riprendendo anche un’idea risalente a Us, ovvero accompagnare ogni nuova uscita con un’opera creata all’uopo da qualche pezzo grosso dell’arte contemporanea.
I pezzi usciti finora bastano per costruirsi l’idea di un seguito ideale di Up — le affinità sonore sono plateali —, composto di tante idee rimaste in archivio e arrivate solo ora a compiutezza (alcune cose, come la ballatona Playing for Time, erano state già proposte in versione provvisoria nei tour precedenti), a creare un tipico mosaico dei suoi, un album poppissimo e studiatissimo nei particolari, stavolta senza guizzi davvero clamorosi ma piuttosto con una summa dei suoi tipici stilemi compositivi, in cui ogni brano sembra il seguito di un brano precedente e più illustre, con un risultato più dimesso rispetto al precedente ma proprio per questo più equilibrato (Up affastella dei classici ormai conclamati del suo repertorio a cose invecchiate parecchio, parecchio peggio). Decisamente quel che ci si può aspettare dal disco di fine carriera di una superstar, che ha la fama e i mezzi per promuovere il disco in sé come parte di un evento che si completa col tour, in un modo che oggi non usa quasi più nessuno; nemmeno gli artisti, pur ottimi e abbondanti, della sua Real World, a ben guardare. Dopo 21 anni in cui ha pubblicato la qualunque, da New Blood (raccolta di orchestrazioni che non mi ha mai convinto) a Flotsam and Jetsam (collezione di remix perduti e B-sides apprezzabilissima invero), e dopo alcuni segni di incipiente demenza senile come il tour con Sting (immaginavo le teste dei riccardoni saltare come turaccioli a Capodanno, per parte mia ero sconcertato), avevo accettato che ormai Peter fosse solo un, peraltro ottimo, discografico — a cui, da folkettaro, porto la massima stima. Se non che ora, appunto, torna in gran spolvero e finisce di tirare le somme, e noi con lui. E qui divago su quel che Peter è stato per me.
Non ho contributi da offrire circa la sua fama di grande innovatore o sperimentatore (non mi è mai parso, se non per il pur rilevante lato tecnologico; né mi sembra importante), nemmeno per la sua posizione all’interno di una storia del pop o del rock la cui stesura è ancora da farsi davvero, e a cui non contribuirò certo un granché. Scoprii Peter durante la pubertà, appena dopo i suoi Genesis, da me allora amatissimi (e per cui ci sarà, forse, un’altra storia per un’altra volta), e si impose prestissimo in modo autonomo con un ruolo ben preciso: nel mio mondo immaginale egli fu, innanzitutto e per eccellenza, il cantore della nevrosi.
L’impatto più importante fu senz’altro coi suoi dischi più ctoni, il terzo e il quarto [1], i cui temi comunque riverberano nei suoi dischi più facili, da cui ricavai un’impressione allora informe, ma decisa: lo scopo ultimo delle sue ritmiche riverberate (ah! la sola batteria riverberata che abbia mai apprezzato!), delle sue ricerche africaniste, delle sue armonie catturanti, dei suoi testi archetipali, era quella di rappresentare e costruire uno sganciamento controllato dei freni inibitori a uso di un inglese di ottima famiglia represso e assediato da istinti che lo raggiungevano come demoni. L’adolescente che ero, completamente perso e accartocciato, circondato da una musica da classifica — nella parte alta come bassa — che parlava di provocazioni, piaceri, amori, struggimenti, esperienze le più comuni, poteva trovare in questa dell’evasione, certo: ma a raccontare la sua esperienza più profonda ed elementare, quella della negazione dei vissuti, della congestione cerebrale, del contatto quotidiano, diretto e tormentoso col senso e la morte, del divieto e dell’interdetto; a raccontargliela, dicevo, era innanzitutto lui. Anch’io ballavo da solo — su The Family and the Fishing Net e la sua vita rituale come attorcigliamento di forze oscure, su Lay Your Hands on Me e il sogno di un contatto risolutivo, su Intruder e la sua morbosità, ma anche su Only Us e il suo sogno naif di relazione assoluta, e tante altre; e quel racconto in cui sapevo ritrovarmi, allora, era il suo racconto. Insomma sono uno sfegatato, pur criticone e snobbone perché così son fatto, ed è quanto.
Con un amico (che chiameremo Pad), anche lui grande fan e responsabile delle foto, e una sua amica che era già stata al concerto di Verona e ci spoilererà tutto [2], facciamo ape perché siamo dei meneghini del cazzo e arriviamo al Forum in auto senza intoppi. Dopodiché ci dividiamo: i posti sono numeratissimi per meglio lucrare, secondo l’uso corrente, e l’amica di Pad, che è più sveglia di entrambi noi e si era mossa prima, ha un posto più avanti dei nostri, quantunque non ci si possa lamentare di questi: buona visibilità, angolati e non troppo rialzati. Pad e io condividiamo il senso di un suggello che stiamo mettendo a una storia intera: Peter, è assai probabile, lo vedremo stasera e poi mai più.
Siamo in congruo anticipo e due cose saltano subito all’occhio: innanzitutto l’impressionante apparato scenico, progettato assieme all’artista concettuale Ólafur Elíasson, con due megaschermi laterali per i piani più stretti, schermone di sfondo, varie lampade circolari che andranno su e giù ma per ora sono spente e, soprattutto, il caratteristico schermone centrale, circolare e mobile, con effetti caleidoscopici. In secondo luogo si vedono affaccendarsi i celebri minions di Pigì, la sua squadra di solerti operai in tuta arancione che sempre manutengono le macchine di scena e che fanno del nostro un vero Willy Wonka. Lo schermo ci permette di ingannare l’attesa mostrando il quadrante di un orologio, dietro cui un minion aggiorna l’ora con straccio e pennello. Si comincia poco dopo le 20, giustamente sul presto, e non ci sono spalle perché sarà lunga.
Le luci si spengono, sul circolo appare la luna calante, Peter e la sua backline coi controcoglioni si radunano intorno a un finto falò. Il CEO dell’operazione, peraltro sensibilmente dimagrito dai tempi del Back to Front Tour, è in vena di comizi e si affanna, ora e anche in vari punti in seguito, a parlare in italiano dell’offerta musicale, del futuro dell’umanità e di un po’ tutti i Dharma; gli schermi laterali in cui è inquadrato sono dotati di sottotitoli amministrati dall’algorismo che ci distrugge il posto di lavoro, il quale è tarato sull’inglese, non si raccapezza e regala un comicissimo trojajo, vero e proprio spettacolo nello spettacolo. Si comincia col gruppo tutto seduto e brani raccolti scelti, devo dire, con coraggio, ovvero Washing of the Water (un inizio che non mi aspettavo minimamente, disturbato purtroppo dai soliti ritardatari che non sanno leggere dei numeri su delle sedie) e Growing Up.
Il falò si spegne, la luna scompare, il gruppo si distribuisce e abbiamo già chiaro l’andazzo: il materiale è preso dai dischi di più facile presa, So, Us e Up; ma in mezzo viene suonato tutto, o quasi, il nuovo disco. Una scelta che ha sconcertato qualcuno, e in realtà del tutto prevedibile: Gabriel è entrato nella seconda giovinezza propria dei grandi vecchi, che prendono a fare tutto il cazzo che pare loro, e con lo sforzo che sta profondendo per spingere i/o non c’è proprio da stupirsi. Il gruppo è forse il più variegato che ha mai dispiegato: ovviamente c’è la Trinità Riccarda Levin-Katchè-Rhodes, più Richie Evans a flauto traverso e mandolino; e fior di polistrumentisti come Ayanna Witter-Johnson a violoncello, tastiere e voce (sarà lei la duettante caratteristica di quasi ogni tour di Pigì, anche se qui questo elemento sarà ristretto pressoché a Don’t Give Up, in cui dà una prova per la quale abbiamo tutti uggiolato), Marina Moore alla viola, Josh Shpak che impreziosisce gli arrangiamenti con una tromba spesso dissonante e in sovracuto, e Don-E alle tastiere. Una prova che Pigì sa leggere i tempi, nonostante tutto, e che i tempi sono come ve li racconto io nel mio infinitesimo: segnati da una frammentazione per cui sta risorgendo la strumentazione più varia, e per cui il folk, che si fa ovunque strada prendendosi il suo tempo come le acque calme, gusta il suo lungo trionfo, quello che attraversa le epoche.
La scaletta prosegue con tre nuovi brani già usciti, la visionaria Panopticom che continua a non convincermi, il trip-hop apocalittico Four Kinds of Horses (forse il nuovo brano che mi ha preso meglio finora) e i/o, poppettino furbino con un testo finto-ingenuo sul quotidiano e l’interdipendenza di ogni cosa. Segue un colpo basso completamente inaspettato, che ho dovuto cantare per intero: Digging in the Dirt, da Us, un vero e proprio inno per chi come noi si è fatto psicoterapia a tonnellate. Luci e immagini cangiano a seconda del brano, i numeri da mimo di Pigì sono decisamente contenuti, come sempre dal Warm Up Tour in poi (l’apparato serve anche a fare scena senza che lui si muova troppo), la sua voce in pura carta vetrata 100% — del tutto ineducata e che, ciò non di meno, resta tra le voci maschili della mia vita — è più bella che mai grazie alla brunitura data dal passare degli anni, e il gruppo è eccellente come previsto.
Senza dilungarsi sulla scaletta che tanto è pubblica, è solo a metà (dopo la già citata Playing for Time, l’ottantiana inedita Olive Tree e l’ostinata This Is Home, con gli elementi di una bella casetta inglese) che si arriva alla prima smash hit, ovvero Sledgehammer, che prelude a un’altra ottima trovata: la pausa per pisciare di una ventina di minuti o giù di lì. Pad e io usciamo perché lui è un vizioso e deve fumare, ponderiamo l’accaduto e il nostro essere nel mezzo del cammin di nostra vita, torniamo indietro, troviamo tanti posti vip soli soletti proprio in direzione del palco — siamo proprio dietro ai minions che riprendono — e ci accomodiamo lì, ché tanto non ci dice niente nessuno. Si riprende con immagini in b/n di un bosco di notte per Darkness, che non ricordavo affatto così buona.
Abbiamo poi The Court (secondo brano più interessante tra i nuovi già usciti), la soffusa Love Can Heal, Road to Joy (una sorta di seguito elettronico di Kiss That Frog) col suo dito medio iconico e il keytar di Don-E, Don’t Give Up di cui ho detto, Red Rain per cui il circolone si orienta parallelo al suolo per far piovere rosso, la struggente And Still dedicata alla madre, un altro lentone in What Lies Ahead, il tuffo nel passato di Big Time (sono mai finiti gli yuppie, o hanno solo cambiato pelle?) e la bizzarria dai synth flautati Live and Let Live. Si arriva allora alla conclusione del concerto più scontata possibile, consapevoli però che, come dicevano gli avi, necesse est: Solsbury Hill, poi i saluti, poi il pizzoso rito del doppio bis: In Your Eyes (ogni gruppo e artista che amo ha la hit da concerto che, su disco, salterei sempre: eccola qui) e infine Biko, con fondo rosso e il circolone che mostra Steven Biko: per forza di cose mi alzo, la canto tutta, mi spacco i capillari delle mani sul ritmo e resto con la voce roca perché la canzone è troppo alta. Quarto disco non pervenuto, ma aveva fatto la sua parte nei due tour precedenti, e amen.
Sono le 23 e torniamo a casa satolli, avendo rimuginato sulla fine di un’epoca: a un concerto di queste dimensioni non andremo, probabilmente, mai più. A farli sono solo gli ultimi Grandi Vecchi del pop e del rock, e quelli che restano non ci sono mai interessati, o non c’interessano più, o comunque non abbastanza per i dissanguamenti che chiedono, soprattutto il mio gusto è ormai mutato troppo; altrimenti c’è un mainstream a regime minimo e rotazione dei nomi massima, e siamo sempre lì. Davanti a me, oltre alla non remota possibilità della rovina economica, vedo la partecipazione a cose più semplici e raccolte, o a rassegne di musica accademica adatte al noiosone che mi sono fatto. Il concertone al Forum o nelle piazze è cosa di un’epoca tramontata giusto allora, in quel 15 maggio.
E qui mi ricollego per il giudizio sulla serata: una gran bella serata in cui sono morto per un pezzettino, e altre cose vivranno. Non so giudicare più di così.
E ad ogni modo, grazie per questi anni, Pigì.
Questo, almeno per ora, è tutto per quanto riguarda Piffero Reportage, la prossima uscita tornerà ai dischi. E dopo ancora, chissà.
Come sempre, vi invito a farmi conoscere e a coprirmi di sesterzi, se vi è piaciuto.
[1] Non uso mai i raccogliticci nomi Melt e Security, per principio.
[2] Siamo della vecchia scuola, che ricorda le recensioni dei film in cui veniva spiattellata tutta la trama. Insomma, le anticipazioni non ci rovinano proprio niente.