È del giugno '20 l’uscita di Nayda dei Bab L’ Bluz, power quartet franco-marocchino di stanza a Marrakesh. L’idea è quella di proporre uno psych-blues nordafricano con le radici affondate nella musica del gruppo etnico dei Gnawa, a partire dall’uso del caratteristico guembri, cordofono a tre corde dal registro grave, suonato con una tecnica pizzicata simile a quella usata negli archi e dalla cassa fatta di pelle di cammello, in maniera affine al banjo — ideale insomma per creare groove.
Il gruppo si inserisce nel movimento giovanile del nayda da cui il titolo, una sorta di new wave folkeggiante che recupera il retaggio locale in un contesto festaiolo, ribelle e inclusivista, espresso anche attraverso il canto in darija, l’arabo vernacolare tipico del paese (se vi sembra assomigliare a tante cose che stanno accadendo nel bacino del Mediterraneo, Italia inclusa, mi associo). La ribellione si esprime sin dalla formazione stessa, dal suo essere dotata di una frontwoman, Yousra Mansour — vera e propria immagine del gruppo, energica, appariscente e debitamente tamarra; accompagnata da Brice Bottin al guembri principale, più chitarre e altro, e a Jérôme Bartolome a flauti e percussioni, che completa il nucleo principale del gruppo. Allora si aggiungeva alla batteria l’ottimo Hafid Zouaoui.
Il guembri debitamente amplificato si unisce ad altri strumenti tradizionali — tamburi come l’awisha o il bendir, le nacchere in metallo delle qraqeb, flauti dritti assortiti dal registro molto alto, e via esemplificando — per creare appunto quel suono, che ha il suo manifesto nella formidabile traccia iniziale Gnawa Beat. Croce e delizia di questo esplosivo debutto è proprio il suo carattere di manifesto: partito così col botto, il disco si esprime in brani potenti ed efficaci, sì, ma che sembrano sempre commentare quel primo, o variare su esso. A ogni modo il gruppo fa un discreto botto in Europa con un fortunato tour, grazie alle risorse della Real World e a un’indubitabile capacità di tenere il palco (i saggi su YouTube abbondano, ma può bastare dare un’occhiata qui). C’era quindi attesa per questo secondo Swaken, promosso portando avanti l’idea che il gruppo, ora, è più consapevole dei propri mezzi e ha indurito al suono, con la franchissima e dichiarata intenzione di creare un suono più “da festival”, “focoso”, e di piacere di più dalle nostre parti — io stesso avevo spinto all’uscita l’ottimo primo singolo Imazighen qualche puntata fa, descrivendolo come un “hardcore punk desertico” e restandone favorevolmente impressionato. Il suono è effettivamente indurito, il pezzo complesso e incalzante, e la formazione espansa col fiatista aggiunto Mehdi Chaib, e il nuovo batterista Ibrahim Terkemani. Le recensioni entusiaste fioccano, ma ora vorrete sapere il mio parere, giusto?
Ebbene, è positivo. Per lo più.
Imazighen è un pezzone e lo ribadisco, né mancano altri momenti di valore — segue a ruota il mantra di Wahia Wahia, bizzarramente settantiano Zaino, deliziosa la tamarreide del secondo singolo AmmA, interessante il tempo dispari di Ya Leilo e interessantissimo quello di Li Manaa; bello anche l’incedere pesante di Karma. Su un altro versante IWAIWA FUNK è decisamente un “more of the same”, la conclusiva Mouja sembra ammiccare al metal per andare non so bene dove, e il tentativo di “ballad nel disco duro” fatto con Hezalli, per legittimo che sia, non mi pare riuscito, risultando in un brano salottiero latore di tanti dolorosi ricordi dagli anni '90 della “world music”. Beninteso, la crescita del gruppo è avvertibile, ma siamo di fronte a un caso abbastanza tipico di secondo album in cui le si provano un po’ tutte, e che lascia l’attesa di una sintesi più compiuta. In ogni caso bello, energico, e capace di creare attesa per una resa dal vivo che mi aspetto altissima.
Vi lascio al disco su Bandcamp e ai video di Imazighen e AmmA, con in più l’animazione per IWAIWA FUNK. Alla prossima!