The Langan Band; The Magpie Arc; Selwyn Birchwood [Dischi '23 #9]
Rythm'n'blues, un folk poco sorprendente e un folk che lo è molto di più
Glamour In The Grey — The Magpie Arc (2022)
Torna il supergruppo folk-rock britannico capeggiato dai Grandi Vecchi Nancy Kerr, Martin Simpson e Findlay Napier col loro primo vero album, che fa seguito ai tre EP (semplicemente numerati) con cui avevano rilasciato il primo lotto di pezzi in tempo di pandemia. La proposta è presto detta, ed è quella, appunto, di un folk-rock dallo smaccato carattere di omaggio dei tempi d’oro vissuti dai membri (e dal loro pubblico, sembrerebbe), pestato, dritto come un fuso e dall’ottima esecuzione, a base di un consueto misto di originali e tradizionali col turbo. La mente va a nomi che è facile immaginare se si è bazzicato un po’ il genere, specie a quell’altro supergruppo ante-litteram che fu la Albion Band di Ashley Hutchings e agli Steeleye Span dagli anni Settanta inoltrati in poi (col passaggio alla Chrysalis e dopo le prime, diabolicamente geniali, stagioni — ma di questo vi dissi).
Che dire? I portali autoctoni impazziscono per questa nuova uscita, io… un po’ meno. Se gli EP erano più disorganici, erano anche più spontanei e di atteggiamento più leggero; qui abbiamo invece una proposta inerentemente conservatrice, quasi decisa a dimenticare che rivolo di influenze sta bagnando il folk attuale in epoca di frammentazione. Un disco certamente capace di far saltellare tante teste candide ai festival (e la testa mia di biancore non manca), consapevole, solido e — nessun dubbio in proposito — divertente. Ma non molto di più. Gli Span più recenti fanno qualcosa di piuttosto simile, anch’esso latore di un solucchero senza rivoluzioni, e tuttavia con più guizzi; né basta come spiegazione il fatto che loro godano di rinforzi più giovani, visto che persino Shirley Collins (conto di dirvene presto) sta osando ben di più da ultraottuagenaria. Abbiamo una Jack Frost interessante, sì, e sono stato preso bene dal tastierone ostinato del singolo Don’t Leave the Door Open (nonché dal gusto vintage del video); mi spingo a definire piuttosto brillanti il breve episodio Long Gone e la drammatica Cutty Wren, e se fosse un disco brutto ve lo direi subito (al di là che avrei probabilmente preferito non scriverne, in quel caso). Ma con quello che sta succedendo ora nel folk l’asticella si è alzata e, spiacente per i nomi coinvolti!, un divertissement al sapor di riccardone e che mi rimanda ai dischi che ravanavo vent’anni fa [1] non basta a entusiasmarmi. Se non fate mai senza un folk ricco in schitarratone taglienti dategli comunque una possibilità, qui è tutto al suo posto. Solo, per me, anche troppo, si alzasse un po’ dal banco piuttosto.
[1] I primi Naughties: per me, da sempre, L’Era delle Prime Riedizioni Decenti.
Exorcist — Selwyn Birchwood (Alligator, 2023)
Torna il prolificissimo faro del rhythm’n’blues contemporaneo da Tampa, dopo Living in a Burning House di due anni fa: per chi non lo conoscesse — male, male, vi si spegnerebbe la lanterna in mezzo a un nido di vipere senza di me, altroché — Birchwood è autore di quello che lui stesso definisce electric swamp funkin’ blues; un blues elettrico con elementi Southern, stilisticamente orientato a tornare sempre al blues ma passando per l’intera esperienza afroamericana, forte di doti chitarristiche realmente straordinarie: siamo dalle parti di un Sonny Rhodes che incontra Jimi Hendrix, e al cospetto di doti strumentali, senza mezzi termini, immense: una chitarra (e a volte un lap steel) che urla, piange, ride, con una varietà espressiva e un uso del repertorio di effetti degni del mio amatissimo Richard Thompson (con le differenze del caso, non ultima la ben più stretta aderenza alla scala blues), al servizio di brani che corteggiano la contemporaneità — a partire dai testi, spesso molto aggiornati e sempre arguti — ma tornano al punto di partenza, sebbene con melodie più adorne di quelle tipiche del blues. Non è da trascurare nemmeno la sua voce, baritonale e ruvidissima, con toni saltuariamente da crooner, invero un po’ limitata ma efficace. Il gruppo è abbastanza all’osso ma non serve di più, con Regi Oliver che alterna sax tenore e baritono, Donald “Huff” Wright al basso, Byron “Bizzy” Garner alla batteria (forse l’elemento che spicca di più, veramente non capisco come faccia), ed Ed Krout alle tastiere e organo.
Birchwood viene da un’infilata di dischi che hanno il proprio apice, a mio avviso, in Don’t Call No Ambulance e nel successivo Pick Your Poison, mentre nell’ultimo ho iniziato a vedere una certa perdita di direzione: non brutto, per carità, ma Birchwood ha uno stile (o meglio, un approccio polistilistico) ormai consolidato, che lì iniziava a mostrare la corda. Con questo nuovo Exorcist la china risale; a partire da quello spasso del singolo FLorida Man, una messe di variazioni ritmiche su una serie di sconcertanti fatti di cronaca che hanno per oggetto “un tizio dalla Florida”, e proseguendo con altri pezzoni — l’esordio blues-rock di Done Cryin’, la quasi voodoo Horns Below Her Halo, il semi-gospel di Lazarus, il fuzz vagamente angosciante di Exorcist, l’episodio da “noir paludoso” di Swim at Your Own Risk — siamo di fronte a qualcosa all’altezza di Pick Your Poison, con un uso della chitarra forse più consapevole ancora. Non siamo di fronte a una rivoluzione, ma a una padronanza estremamente consapevole degli stili prescelti, quello sì. Godurioso.
Plight o’ Sheep — The Langan Band (2023)
Qui arriviamo a una mia scoperta recente: nulla infatti sapevo di questa formazione caledone; né del resto ne avevo avuta molta occasione, visto che avevano all’attivo un solo altro disco di ben dieci anni fa. Si tratta di un trio con a capo John Langan, voce principale, chitarra e cervello dell’operazione (il nome originale era proprio The John Langan Band, cui è intestato il precedente Bones of Contention), e comprende Alastair Caplin ad archi e fisarmonica, e Dave Tunstall a contrabbasso, mandolino e pipes. Il disco, si diceva, arriva con molto ritardo e dopo una messe di problemi personali che hanno colpito i membri: il gruppo, a quanto sembra, ha dovuto lavorare alla sua resurrezione e, raccolti i fondi con una campagna di crowdfunding, ha registrato questo nuovo disco nella quiete delle isole Ebridi, in presa diretta o giù di lì.
In tutto questo, dicevo, io non li conoscevo per nulla; e adesso? Adesso hanno un altro fan.
Quel che abbiamo di fronte è una raccolta di brani quasi tutti originali (eccetto l’episodio forse più bizzarro, una versione dell’inno gitano Djelem Djelem; e Come When I Call You, cover da Woody Guthrie e Login Sklamberg) che definirei come “l’Americana incontra i Five Hand Reel”: un approccio vagamente bluegrass condito dalla più pura intensità caledone, che mi ha ricordato gli effimeri quanto gloriosi supergruppi fondati da Dick Gaughan, appunto i Five Hand Reel e gli struggenti e sfortunati Boys of the Lough; il tutto al servizio di brani estesi, grassi, frammentati e colmi di variazioni, con voci all’unisono, cambi, virtuosismi estemporanei, resoconti di strane vicende, strumentali enigmatici; un disco estesissimo (ben 70 minuti!) e stipato di lunghi (solo lo strumentale al sapor di klezmer The Drunken Dwarf e il solido folk appalachiano di One Whole Year hanno una durata ordinaria), ciascuno dei quali è un satollamento, un viaggio completo, e tuttavia inserito in un insieme che scorre e si porta con piacere alla fine. Affiatamento e resa sonora del gruppo sono sorprendenti, e non si sente la mancanza di una formazione più estesa, grazie sia alla varietà di registri dispiegata da tutti che all’approccio alla chitarra fortemente percussivo del titolare, che si segnala anche per una voce pastosa e dall’accento piacevolmente marcato (oltre che baritonale, che ricordo, è il miglior registro maschile punto).
Per concludere si segnalano Leg of Lamb, una sorta di mini-epopea sul recupero di un cosciotto perduto; la romanticheria terrena a base di amplessi di Sweetness; il puro struggimento di nostalgia caledone di Open Your Eyes; l’inno ossessivo trasformato in bluegrass al fulmicotone di I’m Alive; e l’ingegnosa chiusura celto-klezmer-mediterranea in lode di una birra di Old Tom's Waltz / Reel Valencia. Insomma un gruppone, col pregio, per me, di arrivare completamente inaspettato e di farmi ricredere su un preoccupante raffreddamento che vedevo nella scena scozzese. Bellissima sorpresa.