Apriamo con un bel cliché: non ha certo bisogno di presentazioni (puff puff, ce l’ho fatta!) la grande Rhiannon Giddens, americana di origini afro-galliche (queste ultime tradite soprattutto dal nome, preso da un’eroina del Mabinogion) e di bellezza classica che da anni ha portato lustro a quell’intersezione di generi afroamericani, Southern e appalachiani che ricade sotto il nome di Americana o American roots. Dopo l’interruzione — chissà poi se permanente — dell’esperienza dei Carolina Chocolate Drops ormai una decina di anni fa la nostra fa da sola, con due ottime uscite a nome proprio: nel '15 con Tomorrow Is My Turn e nel '17 col più famoso e perentorio Freedom Highway. La proposta di Rhiannon si caratterizza per un’attenzione particolare al repertorio roots consolidato, trasformato in un pastiche vitale e grintoso dalle capacità interpretative uniche dell’artista, polistrumentista provetta — specializzata soprattutto nella viola e in una mano fulminea al banjo — e cantante che schiera l’ascoltatore nell’esercito di Amore (ecco, un cliché fermentato per qualche secolo è quello che ci vuole) con un bel portamento deciso, debita varietà di registri e un colore che sembra davvero il meglio dei suoi due mondi di provenienza. Se qualcuno avesse bisogno di togliersi subito ogni dubbio non ha che da lasciarsi travolgere dalla sua interpretazione di Spanish Mary di Bob Dylan, indi pentirsi, contrirsi e venire salvato.
Negli anni successivi le cose prendono una piega diversa: Rhiannon si trasferisce a Dublino e mette su famiglia con Francesco Turrisi, pianista e polistrumentista siciliano che afferma — e confesso di aver sentito un brivido allorché lo lessi — di ispirarsi alla scuola della ECM Records. Ne nasce un consorzio artistico che si traduce in due dischi ancora, There Is No Other del '19 e They’re Calling Me Home del '21. Qui il piano si sposta verso una ricerca diversa, orientata a quel che si può ravvisare nella musica roots americana di forme e modi del Mediterraneo, con un’operazione in effetti densa di curiosità: se There Is No Other viene salutato da grandi e piccini, me compreso, come una notevole sorpresa, il secondo… anche; ma ecco che in me si insinua un tarlo, un seme d’angoscia piccolo piccolo: nella proposta, prima così popolare benché ingegnosa, sento pian piano insinuarsi Lui, l’Avversario.
Sto parlando del midcult, di cui avvertivo la sinistra presenza in un repertorio che sembrava guardare ai salotti qualche volta di troppo. E se They’re Calling Me Home complessivamente mi piace, e non condivido altri giudizi alquanto aspri (non certo quelli della stampa comunque, più che mai devota), devo riconoscere che il senso di riproporre a quel modo l’aria Si Dolce è'l Tormento di Monteverdi non la capisco proprio, se non temo piuttosto di capirla benissimo. E se When I Was in My Prime e I Shall Not Be Moved sono riproposizioni consapevoli e all’altezza, chiudere il disco con Amazing Grace sa di ammiccamento più di quanto dovrebbe; per non dire del singolone corale Avalon che — ah, i sudori freddi! — a ripensarci è proprio camp. Insomma Rhiannon accusa il colpo, specie di fronte a produzioni di colleghi come il fenomenale Jake Blount, che nel suo The New Faith dello scorso anno gioca con le forme della terronia statunitense forte di ben altro brio. Ahimè! Iniziavo a dubitare di Rhiannon Giddens!
Fra dolori e consolazioni da varie parti si arriva a oggi e Colei torna col terzo disco esclusivamente a nome proprio, appunto You’re the One, nome preso dall’enfatica title track dedicata al figlio neonato. Il proposito qui è chiaro: giocare ancora con l’Americana ma, appunto, farne un gioco, per un disco che, a dire della titolare, vuole essere innanzitutto divertente e farla conoscere a più persone. Per di più, si tratta del suo primo disco senza materiale tradizionale, con soli pezzi originali: ormai nella quarantina inoltrata, Giddens finalmente osa. A conferma di questi nuovi intenti, la produzione è di Jack Splash, nome pesissimo dell’R&B più diffuso (per far due nomi, ha lavorato con Alicia Keys e Kendrick Lamar): il risultato è un suono tondo tondo e ben levigato, con ottimi turnisti che regalano dei groove di prima forza, e con Giddens al centro esatto della scena.
Il repertorio è una sorta di grande raduno afroamericano tra Lousiana e Appalachi, sebbene punteggiato di incursioni: notevole in questo senso è Yet to Be, storia d’amore d’altri tempi interpretata insieme al veterano del Southern rock Jason Isbell, che sorprende con un cambio improvviso e una coda quasi prog. Altri brani notevoli sono lo zydeco furioso di You Lousiana Man, primo e fulminante singolo; la lenta e dolorosa Another Wasted Life sul dramma delle carcerazioni prolungate di tanti afroamericani che, in appello, risultano innocenti; le caratteristiche allusioni erotiche di Hen In The Foxhouse e You Put The Sugar In My Bowl, il soul ultraclassico di Wrong Kind of Right, l’incazzata Too Little, Too Late, Too Bad, e il jazzone orchestrale da musicarello di Who Are You Dreaming Of. Si chiude in velocità col cajun celticheggiante di Good Ol’Cider.
Nel complesso? Il disco sembra comunicare una chiara intenzione da parte di Rhiannon Giddens: quella di farci sapere che è sempre lei e che non l’abbiamo persa. Intenzione mantenuta con un repertorio che diverte come promesso e che, se non va a comporre la sua opera più ambiziosa né la sua più bella in generale, è senz’altro la più accessibile pur rimanendo variegata come sempre, e conferma quantomeno la versatilità e la forza dell’artista, che bene o male sa realizzare sempre la sua visione del momento. I giudizi della StampaCheConta, e apparentemente del pubblico, sono altalenanti; talvolta tepidi e orientati a ridimensionare il disco rispetto al predecessore. Ma voglio dire, vi fidate più di me o di Pitchfork? Appunto. Godetevelo forte e basta.
In coda vi lascio col disco su Bandcamp, Il video del making of, quello di You Lousiana Man con un classico montaggio delle sessioni in studio, il lyric video di You’re the One, un montaggio di foto d’epoca per Yet to Be; e quello di Another Wasted Life, con 22 ex carcerati che hanno scontato circa 500 anni in totale per crimini di cui erano innocenti.
E in chiusura, una comunicazione di servizio: altri impegni incombono, con a seguire il prolungato ponte di novembre. Cercherò di farvi aspettare il meno possibile; in seguito conto di darci dentro. Una cosa posso dire con certezza: di materiale di cui dirvi non sto mai senza, giacché la musica è viva e pulsante.