Giochi del Piffero: Return to Monkey Island
ovvero, Dell'Everyman e dell'oceano del mio scontento
La rubrica Giochi del Piffero (qui un piccolo manifesto) si oppone strenuamente all’ossessione contemporanea per gli spoiler: potrebbero sempre essercene, perciò occhio.
Come giocatore sono molto orientato al single-player e ai giochi narrativi — più precisamente, alla ricerca di come un gioco può farci vivere un’avventura e farci conoscere un mondo, dell’evoluzione dei modi in cui questa impresa è stata tentata.
In questa cerca ho evitato di perdere tempo con le esperienze cinematografiche che caratterizzano tanti tripla A1, e ogni tanto concedo una possibilità a un’avventura grafica; ma ne sono sempre più disilluso: il loro acme, rapportato ai tempi, aveva perfettamente senso — era senz’altro il genere più spettacolare dell’epoca, e non c’erano molti altri modi efficaci per proporre un’avventura ricca di testo e dialoghi. Ma è un genere arrivato negli anni a mostrare la corda sempre di più, specie a causa di come i famigerati enigmi inficiano la narrazione, sia per la dilatazione dei tempi che procurano, sia per le interruzioni diegetiche che vanno a costituire. Negli anni sono state tentate molte strade, dalla semplificazione degli enigmi e dell’interfaccia — col risultato, rispettivamente, di una banalizzazione e di un irrigidimento strutturale che, a mio avviso, aggravano il male più spesso che no — allo stravolgimento diretto, aiutato dal progresso tecnologico, che porta dritti al walking simulator, alle variazioni contemplative di Myst ed epigoni, e altri esperimenti simili. Nel tempo, però, non posso negare che l’RPG, liberato dalle antiche velleità simulative, quanto al portarci dentro una storia mostra un potenziale superiore (spesso sprecato in altri modi, ma questo ora non c’interessa). E lo stesso per l’action adventure.
Con tutto ciò, serbo sempre un bel ricordo della mia prima avventura grafica, un classico che è stata la prima volta di tanti: The Secret of Monkey Island della Lucasfilm Games. Giocandoci da bambino con madre e sorella (rimaste presissime da quella cosa indefinibile anche per loro), e digiuno quasi del tutto di cultura videoludica, non sapevo cogliere i numerosi punti di rottura con la tradizione già stabilita dalle avventure grafiche — per un pezzo ho pensato fosse uno standard che non si morisse, per non dire delle perenni dieci di sera di Melée Island, che contrastavano con l’articolazione in giornate di quelle avventure Sierra di cui non sapevo proprio alcunché — e quel che restava era la vicenda di un ingegnoso Everyman: Guybrush, ragazzino in bianco2 venuto dal nulla, sottovalutato da tutti, preso in cose tanto più grandi di lui, un ponte su un mondo pieno di segreti e anacronismi, con l’attesa di uno spettro nascosto in un mare di lava che terrorizzava un mondo dei pirati decaduto e cialtronesco. Gioco finito in mesi di tentativi, tirando notte in tre, e senza mai guardare la soluzione, rito d’epoca che faceva le vendite di tante riviste. Fu a un orario antelucano che il pirata fantasma LeChuck apparì finalmente in un angoscioso primo piano appena prima di esplodere, in un epilogo aperto e perfetto in cui Guybrush tira le somme col governatore Elaine Marley, donna più grande e matura del protagonista3, rimasta sospesa come accade al primo sogno erotico di tanti di noi (non va da nessuna parte, resta il sogno di come sarebbe potuto andare, e non manca proprio niente).
Già il secondo, Le Chuck’s Revenge, mi aveva lasciato in una delusione che non sapevo ammettere a me stesso, col creatore Ron Gilbert che quasi non sembra tollerare la costrizione di un seguito (nessuna sua avventura precedente ne aveva avuto uno fino a quel momento, e nessuna mai ne ebbe uno curato da lui) e quindi decide di giocarci attorno, tra una moltiplicazione delle situazioni slapstick e un po’ di effetti speciali per coprire una storia assai più claudicante — dal ritorno di LeChuck gestito in modo quantomeno maldestro, fino al finale onirico che prende le mosse da una citazione da Star Wars e decide di non sapere che cosa farne. In seguito, un terzo capitolo che cambiava troppo il tono ma che apprezzai dal punto di vista tecnologico, un quarto che non potei sopportare e una serie della Telltale che cercava di farne una cosa diversa, e potenzialmente interessante volendo, ma destinata a rimanere un ramo secco. Restava The Secret, conchiuso, ingegnoso, con tanti enigmi pedestri ma anche con degli stimoli al pensiero laterale come non se ne sarebbero visti quasi mai più nel genere (su tutti, i duelli di spada a base di insulti e la preparazione della pozione sulla nave); restavano dei seguiti che sapevano per lo più evocarne il ricordo e la sua enorme influenza indiretta; e sarebbe restata una storia amarognola di proprietà intellettuali spremute e di un game designer che sembrava rivolerla indietro per farci chissà che, nonostante già al secondo gioco si vedeva in tralice una relazione d’amore-odio.
Arriviamo al '22, Ron annuncia il suo seguito quando è già quasi finito (per i tipi della Terrible Toybox), e gli appassionati sognano — io no, se un prodotto riesce a eccitarmi oggi di solito è un disco folk, ma mi dissi di stare a vedere. Dopo quel che avevo sentito di Thimbleweed Park e del suo ricorso alla metanarrazione, e dopo che Ron ebbe annunciato che avrebbe assicurato la continuità con tutti i precedenti episodi — cosa semplicemente impossibile, se non per via metanarrativa appunto — più o meno sapevo che cosa ci aspettava. E in certa misura, lo temevo.
Return to Monkey Island è gremito, straripante di omaggi, è una mezza maratona per compiacere i vecchi fan. Personaggi e dialoghi che tornano, un gioco di rimandi fatto tutto per titillare la nostalgia, con almeno una piacevole sorpresa nella forma di una seconda parte aperta e non lineare. Per adeguarsi alla corsa agli achievement il gioco contiene un libro di quiz sulla lore di Monkey Island (cielo, cosa può insterilire un simile, adorabile pasticcio quanto lo sforzo di rammentarne i particolari? Non so perdonare la nerd culture, non ci riuscirò mai), addirittura integra al suo interno un libro degli indizi con suggerimenti sempre meno sibillini, ricalcando la struttura di quelli cartacei che la Lucas vendeva per corrispondenza ai tempi. E che si rivelerà utile a passare oltre degli enigmi zoppi e spesso, troppo spesso, puramente combinatori.
L’interfaccia, bisogna dire, è un colpo di genio, un po’ sotto quel che è stato lo SCUMM a suo tempo ma non poi di molto: preso atto che il giocatore non vuole più la responsabilità di comporre l’azione mediante verbi selezionabili, il gioco non si adegua però alla tendenza moderna a far cliccare perché succeda qualcosa: ogni volta che si passa il cursore su un punto di interesse appaiono scritte due azioni collegate ai due tasti del mouse, sapendo così prima che succede cliccando. Ancora meglio il fatto che viene anticipato in modo simile il frutto della combinazione di due oggetti, cosa che porta a scartare immediatamente le combinazioni sterili (per le quali non appare nulla). Continua a essere un sistema rigido, che ha praticamente fatto sparire la possibilità di scoprire degli easter egg nei giochi e sottratto al giocatore la responsabilità di stabilire come agire, ma entro lo standard ormai impostosi non conosco di meglio. Ottimo anche l’accesso a mappa e inventario ovunque, con la possibilità di viaggiare senza dover prima uscire dalla locazione in cui ci troviamo. Quanto a comfort del giocatore, davvero un ottimo lavoro.
Per il resto, la contestata direzione artistica di Rex Crowle è in realtà integrata piuttosto bene in quel che il gioco si rivela essere: una sequela di cartonati dipinti, come le scene di un libro pop-up, a comporre un mondo squadernato e morto, una serie di diorami che evocano altro da sé stessi, con vecchi personaggi che fanno cammei con delle scuse qualsiasi — andiamo nelle prigioni e c’è Otis, cadiamo in una buca e c’è Herman, entrambi manca solo che salutino a favore di camera —, e con l’ambientazione piratesca ridotta a pretesto: il LeChuck che tanto mi inquietava è una macchietta il cui ritorno non va nemmeno più giustificato, degli altri aspiranti a scoprire il Segreto di Monkey Island non ricordo nulla, il Segreto di Monkey Island è un po’ quello che vuoi tu — celebratissimi i finali multipli che dipendono dalle scelte di dialogo fatte alla fine, e si capisce dalla comparsa del forziere del segreto che sarebbe andata a finire così —, Guybrush è un padre di famiglia che racconta storie al figlioletto forse vere e forse no, Ron ammicca ai suoi devoti X-er e Millennials che, agli dèi piacendo, si sono fatti una famiglia e sanno che quella è la più grande avventura, o qualcosa del genere. E per il finale del secondo scordiamoci il passato, era una fantasia di Guybrush jr (che è anche la giusta fine per il finale irresolubile di un designer insofferente, per carità).
Tutto molto postmoderno, presumo. Ambe’.
Ora, nessuno mi rovina l’infanzia proseguendo una proprietà intellettuale a modo proprio, queste sono cazzate. Il ricordo di quel piccolo miracolo, maldestro e fascinoso, non me lo rovina proprio nessuno, anche perché l’ho finito troppe volte per pensare di riprenderlo ancora.
La strada per il gioco d’avventura non passa più di qui, ormai definitivamente — e questo era nel conto. Era meno nel conto non averci trovato nulla, nulla, da amare.
Non sei tu, Return, sono io. Non sono diventato quel che avrei dovuto per apprezzarti, e del resto hai detto tu di spegnere tutto. Sei stato chiarissimo.
Non so capacitarmi della presa che può avere un film al massimo di media qualità con interruzioni giocate, spesso risolvendosi in dei piani sequenza che si spezza più del dovuto se si ha la malaugurata idea di voler esplorare: mesi di polemiche e una serie TV dopo, siamo forse alla realizzazione collettiva di quanto The Last of Us sia immemorabile; o quantomeno, è quel che oso sperare.
Né mi interessa sostenere che siano brutti prodotti, non credo nemmeno che li siano: solo, sono un chiaro arretramento netto rispetto a quel che i videogiochi possono dare come linguaggio distinto.
A margine: non ne ho mai visto fare cenno nella letteratura sorta intorno al gioco, ma nessuno mi toglie dalla testa che per Guybrush si sono ispirati al Jean-Baptiste “Frog” interpretato da Cris Campion in Pirati di Roman Polanski. Avrei visto il film solo dopo (se non proprio mentre ero alle prese col gioco) in un passaggio televisivo, e me ne convinsi subito.
E che confessa anche di essere sposata, se si fanno le scelte di dialogo giuste! Ma la retcon è sempre in agguato a rovinare una bella storia.