Tra gli esponenti di spicco del rinnovato trad d’Eriu c’è senz’altro il dublinese John Francis Flynn: già membro della formazione tradizionale Skipper’s Alley, il nostro si fece notare nel '21 con un debutto di quelli fragorosi: I Would Not Live Always fu senz’altro tra i dischi che fecero quell’annata musicale per me. La proposta è quella di un repertorio tradizionale, diciamo, a due velocità: da un lato un’esecuzione devota dei tradizionali da parte del nostro, forte di un polistrumentismo che ha al centro una chitarra dal fingerpicking deciso & preciso e una voce baritonale dal fry intenso e dal color carbone che ricorda un Ronnie Drew potenziato1; dall’altro lato un wall of sound che torce e deforma il tutto, proiettandolo in un orizzonte agro e futuribile. Lo stesso Flynn descrisse questo suo debutto con l’immagine di “un Blade Runner ambientato in Irlanda in cui Deckard si fa sempre vedere quando si suona al Cobblestone2”, che fa morire dal ridere perché è vero: il risultato è una vivificazione sorprendente di diversi tradizionali, fra cui spiccano una nervosa e ossessionante My Son Tim, una distaccata e catturante Lovely Joan e una Shallow Brown dalla voce in rincorsa che è, semplicemente, tra le migliori versioni che abbia mai sentito. Per non dire dell’uso quasi distorto, se la cosa ha senso, del tin whistle in episodi come Chaney’s Tape Dream.
Al secondo disco, Flynn ha uno scopo preciso, dichiarato nelle interviste: un racconto amaro della Dublino di oggi, che vede strangolata dalle speculazioni turistificanti e tuttavia ancora viva e guizzante. Per tradurre le sue parole: “Quant’è distorta l’idea che ha la gente dell’irlandesità. Siamo fieri della nostra cultura e ci piace condividerla, ma è una battaglia persa quando alla gente interessa solo se ti vesti di verde o ti fai una pinta […] Temple Bar è come Disneyland”. Così, il disco desidera raccontare Dublino come un posto vero e vitale, trasmettere l’energia che si riceve passeggiando per le sue vie. Una dichiarazione di autenticità riflessa dalla bizzarra copertina, col suo ritratto di un bicchierino di assenzio dal colore lisergico, come dire che si parla di ben altro verde.
Ebbene? Abbiamo un’altra infornata di tradizionali e brani storici tenuti in una sospensione ancora maggiore che in passato, grazie a interventi rumoristici più spinti: siamo subito trascinati in un viaggio stralunato dall’iniziale The Zoological Gardens, brano reso famoso dai Dubliners qui trasfigurato in una cantilena accompagnata da tocchi di arpa persi in un nebbioso rumore bianco. Segue il primo singolo, Mole in the Ground, uno storico nonsense folk americano sul desiderio del cantore di sparire facendosi talpa o lucertola: Flynn amplifica il senso di disagio di fondo con un groove incalzante e un arrangiamento sottilmente stratificato, forte delle sviolinate di Cormac Mac Diarmada dei Lankum, presenza diffusa nel disco. L’episodio di maggiore impatto è però forse la rumorosissima Willy Crotty: delle distorsioni prodotte con radio portatile e pedaliera accompagnano il viaggio verso la forca del fuorilegge Crotty, con un incedere angoscioso e dolorante, complici anche un’armonica a bocca e un clarinetto pazzo. Più distesa The Seasons, scatenatissimo e potente lo strumentale Within a Mile of Dublin con un’altra prova al tin whistle, stringe il cuore The Lag Song con la sua claudicante reminiscenza di Luke Kelly; e rimangono da segnalare le escursioni in territorio Pogues: una versione dilatatissima della misteriosa Kitty — chiusura di Red Roses for Me, disco di debutto di Coloro — che MacGowan giurava non essere un brano originale anche se nessun altro ne ha mai avuto contezza; e a suggello del tutto, una Dirty Old Town trasformata in ballatona d’addio.
Compatto e affascinante, il disco segna senz’altro un progresso quanto alla confidenza che Flynn ha dei propri mezzi — io preferisco i toni più sanguigni del precedente, forse un po’ più convenzionale ma anche di gusto più deciso; ma siamo comunque di fronte alla conferma di un artista che bisogna conoscere se si vuole sapere da che parte va il folk isolano, e a un viaggio deliziosamente dolceamaro. Lo aspetto con una sintesi nel terzo disco, e intanto mi godo questi alla grande.
Vi lascio coi video di Mole in the Ground (quasi un seguito dell’assurdo video di My Son Tim) e Willy Crotty, oltre al disco su Spotify: lo trovate anche su Bandcamp, ma per sentirlo tutto va comprato. Per concludere, vi aspetto con un altro disco, in attesa di avere più materiale per un roundup. Alla prossima!
Un giorno, forse, parlerò del mio più imbarazzante guilty displeasure: celtomane come sono, i Dubliners non mi hanno mai detto niente, ahimè! Luke Kelly da solo sì, ma per il gruppo non c’è mai stato niente da fare [nota alla nota per chi mi segue da un po’: sì, ho trovato solo un mesetto fa la funzione per le note al testo. Abbiate pietà di me].
Storico pub con serate danzanti dello storico titolare Tom Mulligan — un pifferaio per il turismo!