Piffero Roundup #29
Flook; Chœur de Chambre De Namur e Millenium Orchestra; Faun Fables; I'm With Her; Lemoncello; Brìghde Chaimbeul
Piffero Roundup è la rubrica con cui tengo il passo delle musiche che ci interessano, raccontandovi un paio di dischi e qualche brano singolo di recente uscita.
Partiamo da Londra col ritorno, dopo non poco tempo, dei Flook! Per chi non li conoscesse, si tratta di un quartetto di mescolanze trad costituito da Brian Finnegan al tin whistle e flauto traverso in legno, Sarah Allen al flauto contralto classico, Ed Boyd alla chitarra e John Joe Kelly al bodhrán. Da qui si intuisce subito la particolarità del gruppo, che destina la parte melodica a due flauti con chitarra e bodrán a costruire il sostegno ritmico. La proposta è fatta di medley strumentali con un’elaborazione ardita di motivi tradizionali, in cui è rimarchevole la maestria strumentale del quartetto, stupefacente per le sue esecuzioni rapide e precise, con una parte ritmica così elaborata che non sembra nemmeno coinvolgere due soli elementi.
La produzione del gruppo in termine di dischi è stata caratterizzata da forti discontinuità temporali: se i primi tre Flatfish (1999) Rubai (2002) e Haven (2005) sono ravvicinati il giusto, il gruppo sembra scomparire fino al '19, anno di uscita del notevolissimo colpo di coda Ancora. Ancora una pausa lunghetta, tante esperienze di vita per i membri, ed ecco oggi questo nuovo Sanju per i tipi della Flatfish. Il disco è una riconferma delle capacità del gruppo, più confortante che sorprendente (l’iniziale The Farther Shore/Winter Flower è da paradigma dei Flook su tempi medi) e condensata in sole cinque tracce di cui quattro lunghe — ma si distingue comunque per qualche ambizione in più, sia nel campo degli stili (Koady / The Burning Lion contiene soluzioni orientalieggianti) che in termini di strumentisti aggiunti, per cui possiamo udire qui è là ukulele, piano, archi e synth. Il risultato è più che buono per scoprire, o riscoprire, un gruppo che sembrava perduto dopo i difficili Naughties, quando il folk isolano stava diventando più demodé che mai e sembrava aver sparato le ultime cartucce.
Per il secondo disco entriamo in territori che bazzico poco o punto, ovvero l’accademia del tardo Ottocento, in ispecie francese. La Millenium Orchestra diretta da Leonardo García Alarcón, specializzata in ricostruzioni soprattutto antiche, si unisce al belga Chœur de Chambre de Namur per ricreare la prima versione del formidabile Requiem in Re minore di Gabriel Fauré del 1888: pare che Fauré (morto nel 1924, per cui il disco è dedicato al centenario) abbia terminato questa prima stesura per “nessun motivo in particolare” destinandola al funerale di un parrocchiano non specificato (!). Se oggi è noto attraverso la stesura successiva per coro, organo e orchestra e innumerevoli esecuzioni per ensemble e cori enormi, in origine era per coro da camera, un singolo soprano solo (qui Thibaut Lenaerts) e un organico strumentale con viole, violoncelli, contrabbasso, arpa, organo e timpani.
Il disco, per i tipi della belga Ricercar, inizia con vari brani di Fauré per questa formazione ridotta, come En prière, il Madrigale e la breve Messa “des pêcheurs de Villerville”. La parte del leone, col Requiem, arriva alla fine: in questa versione il tutto è composto di cinque soli movimenti (mancano l’Offertorium e il Libera Me, scritti in seguito) e dura appena 21 minuti, sufficienti comunque a restituire l’eterea meraviglia di un capolavoro già compiuto — e mi sento di dire, più apprezzabile in questa forma che in tante esecuzioni illustri e troppo rocciose. La ricostruzione si estende agli strumenti (sono d’epoca sia l’organo che l’armonium), al vibrato diffuso e persino alla dizione, col coro che ripropone l’ormai vastamente disusata pronuncia alla francese del latino (e qui do ragione al progresso, ma a ognuno il suo). Ottimo per entrare in contatto con un etereo capolavoro, per di più citatissimo e zeppo di melodie strafamose, che testimonia quanto fosse avanti l’avanguardia francese di quegli anni (il Requiem di Verdi vede questo col telescopio, se chiedete a me). Bello forte. Vi lascio sotto anche un video con un assaggio dell’ensemble.
Spostiamoci a Oakland per un ritorno per me inaspettato: quello dei Faun Fables, il gruppo di psichedelia teatrale oggi composto da Dawn McCarthy e Nils Frykdahl, che arrivò a una certa affermazione internazionale con quel Family Album del 2004 che, assieme all’omonimo degli Espers, seppe darmi tanta consolazione ai tempi. Ma proprio allora iniziavano i miei anni passatisti e il gruppo, come altri, mi è proprio sfuggito, sicché sono rimasto all’oscuro delle uscite successive. Questo nuovo Ember Bell ci riporta al tipico psych-folk darkettone un po’ britannico, un po’ appalachiano, un po’ del nord-est europeo che mi aveva fatto invaghire allora. Il disco Counterclockwise esce a fine maggio per i tipi della Drag City.
Ritorno per ritorno, ecco di nuovo le I’m With Her! Il superterzetto bluegrass costituito da Sara Watkins, Sarah Jarosz e Aoife O’Donovan, dopo See You Around del '18 — esordio notevole ma ancora carico di promesse da mantenere — e singoli vari si era sciolto perché i membri potessero proseguire coi loro altri progetti, ma finalmente rieccolo. Wild and Clear and Blue esce il 9 maggio e viene lanciato da questa Ancient Light, variata, divertente e coi tipici, ottimi impasti vocali del trio.
Un effetto di quell’ambiguo e strano fenomeno che è il poptimism è la proliferazione, in parte inaspettata, di rivalutazioni postume di alcuni fenomeni del mainstream passato tra i più controversi e, a suo tempo, bastonati dalla stampa. Così, pian pianino, stiamo vedendo finalmente rendere giustizia al gruppo familiare The Corrs di County Louth, che tra la seconda metà degli anni Novanta e i primi Zero fu un enorme fenomeno europop (relativamente meno in Italia, ma è un po’ sempre così): rimembro ancora gli scribacchini d’antan dispiegare tutta la loro grettezza lanciandosi nelle accuse più sciocche e contraddittorie verso il gruppo, additandone la leggerezza e il disimpegno (che si impugnano sempre e solo quando fa comodo), la banalità ma allo stesso tempo lo strano, e in effetti inedito, uso di una gimmick celticheggiante (nel mentre era considerato fresco il brit-pop, non scordiamocelo) e una supposta costruzione a tavolino o inautenticità in forza della sua immagine (detto di un gruppo familiare, e ovviamente i rocker bollitoni che si riuniscono quando non si possono più nemmeno sopportare sono tutti più genuini dello yogurt intero — che menti, signori!). L’ovvia realtà, al netto di inevitabili compromessi sonori e alcuni inciampi certamente, è quella di un’isola felice nel mainstream decaduto e macilento di allora, fatta di melodismo sfrontato e adorabile, della più pura uncoolness per tutte le età (che da queste parti è un pregio, come ho raccontato a suo tempo a proposito di un’altra nemesi storica dei saputi), di una resa live molto sopra la media anche solo per l’idea di inframmezzare dei ballabili e di Catholic girls da sogno1, contro un’orda di schitarrate loffie a opera di brocchi, revival cadaverici e latrati spompi provenienti da arrogantelli dal ceffo grifagno. Fatto è che, proprio come accade per God Shuffled His Feet dei Crash Test Dummies, quelle pur rare volte che riprendo il debutto dei Corrs Forgiven Not Forgotten ne ricavo una soddisfazione inalterata laddove una fila di dischi illustrissimi ha finito per stufarmi; di ciò non ho spiegazione né mi affanno a cercarla — il pifferaio sono io, quindi ho ragione. Andiamo avanti.
Tutta questa tirata per cosa? Per una nuova cover di Breathless, la hit del 2000 realizzata con lo zampino dell’eminenza grigia Mutt Lange per ottenere uno sfondamento del tutto estemporaneo nel mercato statunitense (dove in genere se li ricordano solo per quella): dopo la versione elettronica di qualche anno fa di Caroline Polachek ora tocca alle Lemoncello di Dublino, le quali tentano l’approccio della cover eterea in direzione dream-pop, ancorché curiosamente dissonante: proprio come avviene con l’altra, in questa cover viene estirpato l’arrangiamento country-rock invecchiato così così (e che già allora funzionava meglio nella più graffiante versione dal vivo) per lasciar respirare l’infilata di melodie e la qualità melismatica che erano alla base dell’intrigo dell’originale. Curioso.
Chiudiamo la carrellata in Caledonia, col nuovo singolo della deliziosa Brìghde Chaimbeul! Del giovane fenomeno delle smallpipes scozzesi — una cornamusa a mantice capace di bordone, affine alle uilleann pipes ma più sonora — avevo già detto a proposito di LAS, bel disco a tre con Ross Ainslie, anch’egli piper, e il chitarrista Steven Byrnes. Avrei poi mancato di coprire il successore del '23, Carry Them With Us, che mi aveva dato qualche timore per via della collaborazione con Colin Stetson, il famoso sassofonista sperimentale che mi perplime assai più spesso che no — ma devo dare atto a Brìghde di aver tenuto bene il timone consegnandoci un’ottima conferma.
È atteso per fine giugno il nuovo disco Sunwise, e per ora abbiamo questo nuovo incalzante singolo Bog an Lochan, evocativo dei bog, le grotte in cui vivono gli abitanti del paese delle fate quando non salgono in superficie a darci noia. Brìghde è arrivata a un livello straordinario nella sua capacità di costruire un brano irresistibile servendosi del suo solo strumento, per quanto complesso, e di semplici pulsazioni ritmiche. Aspetto ben volentieri.
Bene, è tutto, vi aspetto presto con una nuova playlist che parte da qui e poi se ne va per i fatti suoi. Alla prossima!
Io ero allineato alla maggioranza, comunque #teamAndrea