Uno dei miei gruppi preferiti della scena folk attuale è in Caledonia, e limitandoci a questa direi che conquista facilmente il podio: parlo dei Lau1, portentoso terzetto composto da Martin Green, fisarmonicista dedito ai synth (che assembla in allucinanti apparati ricchi di circuiti esposti), Kris Drever a chitarra e voce e Aidan O’Rourke al violino; tutti e tre musicisti sensibili e intelligenti con fiorenti carriere individuali che, quando i deva sono più propizi, trovano un punto di incontro e ci deliziano con una proposta folk sempre più increspata di elettronica in un equilibrio funambolico eppure quasi sempre perfetto, con mescolanze che sulla carta non potrebbero in alcun modo funzionare ma che, nelle loro mani, vi riescono regolarmente: la discografia in studio mostra una crescita quasi continua — solo con l’ultimo Midnight & Closedown del '19 percepii un calo rispetto al precedente, peraltro perdonabile visto che quello, The Bell That Never Rang, non era certo semplice da eguagliare; e senza comunque negarci un ottimo risultato. La loro non enorme discografia offre, semplicemente, tutto: se volete il cantautorato strappacuore c’è (Ghosts, Dark Secret), se volete l’azzardo con note avanguardistiche c’è (The Bell That Never Rang con l’Elysian Quartet), se volete il virtuosismo pulsante c’è (Save the Bees, Far from Portland, Tiger Hill), e se volete solo una canzone folk eseguita al massimo livello, c’è anche quella (Butcher Boy, Banks of Marble); solo che abbiate una goccia di folk in corpo, i Lau hanno qualcosa che sa svegliarla e farla vibrare.
Vi sento a questo punto chiedermi: “Tristo pifferaio che sei, ma come accade dunque che non ce ne hai mai parlato?” — è che seguo soprattutto le novità, e questa mia avventura è cominciata ben dopo il fatidico 2020, quando i Lau ci offrirono una scorpacciata prima di sciogliersi, temporaneamente per carità, ma non si sa per quanto: solo in quell’anno ecco lo spettacolare Unplugged, con brani illustri eseguiti in presa diretta senza elettroniche, la costola dal vivo Live Series 1.0, e il “corto” tutto a base di tradizionali arrangiati Folk Songs EP; tre uscite a stretto giro a comporre un exploit (con tanto di concerti online in periodo Covid, uno dei quali non mi sfuggì) che ci ha lasciati orfani — seppure consolabili, visto che il folk vive sempre finché vi saranno cuori e che i tre non sono stati fermi: Aidan si lanciò nel progetto 365 assieme a Kit Downes, in cui proposero una storia di James Robertson musicata per ogni giorno dell’anno; e si è poi dedicato alla composizione di musica per film (per adesso per il documentario Iorram, sui pescatori delle Ebridi); Kris è andato avanti coi dischi a nome proprio e col supergruppo Spell Songs (ricordo l’ottimo disco dal vivo Gifts of Light, che vi avevo segnalato); ma a sbizzarrirsi di più è stato il membro forse più cerebrale e influente dell’operazione Lau, appunto Martin Green, e finalmente ci arriviamo.
Martin ha infatti spinto l’acceleratore sulla composizione e, soprattutto, ha deciso di dedicarsi a una sua passione collaterale, e inespressa nel gruppo: quella per le bande di ottoni e la relativa dimensione popolare. Così dapprima abbiamo avuto l’audiodramma prodotto dalla BBC Keli, sulle vicende di un tormentato giovane suonatore di corno la cui “voce” strumentale viene prestata da Sheona White, appunto al corno tenore. E da lì si arriva a questo nuovo Split the Air, un’opera più strettamente musicale e condensata, con un esplicito tema politico: celebrare il quarantennale degli scioperi dei minatori del 1984.
Il disco è ufficialmente un EP, sebbene si possa ritenere tale a malapena (con sei tracce per una complessiva mezz’oretta è quasi un album, alla fine), con sei composizioni per synth e ottoni che Martin porterà in tour per tutto il Regno Unito, appoggiandosi alle bande di ottoni locali nelle città che andrà a toccare, per un’operazione espressamente comunitaria nel contesto di un Regno Unito spaccato e indurito.
A sorprendere non sono solo l’ambizione e la particolarità dell’operazione, ma anche, disco alla mano, la sua qualità: a leggerne una descrizione senza conoscere Green penserei a qualche fanfaronata che riprende di peso John Rutter o che so; laddove invece siamo di fronte a composizioni con più di un occhio alla musica accademica britannica più fresca, intelligenti e capaci di torcere temi e armonie popolari in qualcosa di meditato e sorprendente; per giunta con più di un sentore di accademia americana, Aaron Copland soprattutto. Si parte con un omaggio melanconico al precedente radiodramma (Keli appunto), si alternano poi episodi più perentori (The Servant) e altri più raccolti (Violet, Jayne), fino al clangore con riposo di The Battle e a una conclusione un po’ più rumorista con Two Cooling Towers. Curioso, ricco, folklorico in modo sofisticato e da sentire rigorosamente per intero, restituisce davvero il senso cos’è la maturazione per un musicista. Bello!
Ve lo lascio da sentire su Bandcamp e vi aspetto alla prossima — forse un roundup o forse un’altra singola, dipende da che materiale mi capita. In ogni caso abbiate fede, le novità non mancano!
Il nome è, diciamo, la translitterazione alla buona del termine in scozzese che designa la luce naturale, quella del sole. Donde il logo, con le lettere inserite in un disco solare.