Piffero Reportage: Crash Test Dummies ai Magazzini Generali, Milano, 17 ottobre 2024
Di come imparai a non preoccuparmi e ad amare l'uncoolness
La mia scarsella piange e le occasioni languono nell’Italia che odia la musica contemporanea, così è passato oltre un anno dall’ultimo concerto che vi ho potuto raccontare — ma finalmente ci siamo di nuovo con un reportage del piffero, ancora con un piede nei territori melanconici in cui mi avevano condotto James Yorkston e Nina Persson; stavolta con l’unica data italiana del tour che i Crash Test Dummies di Winnipeg, redivivi abbastanza di fresco, hanno dedicato al trentennale del disco della loro fortuna, God Shuffled His Feet del '93. Così che stavolta, anzi lo scorso giovedì, ho fatto un tuffo nella mia giovinezza, e stavo per dire che fu un tuffo in un guilty pleasure di allora — per come quel tempo ne fu pieno, permeato com’era di un senso di inadeguatezza pressoché completo e assoluto. Ma no, invero col gruppo di Brad Roberts c’era qualcosa di diverso.
Partiamo dalla fine, cioè dalla serata del 17 ottobre '24, 31 buoni anni dopo (ma la mia scoperta del disco fu un po’ più tarda, in verità). Location accessibile e poco impegnativa quella dei Magazzini Generali, che raggiungo anticipando l’amico Pad con cui avevo salutato per sempre Peter Gabriel — e che una volta di più ringrazio per avermi tolto l’incombenza delle foto. Col Pad condivido la sensazione preliminare, che increspa la seraficità che accompagna ogni mio pre-concerto: quella di una grande curiosità antropologica rivolta al pubblico. Non avevo idea di chi ci sarebbe stato, in termini di età e composizione; semplicemente nessuno, proprio nessuno nella mia bolla (si dice ancora?) sa chi accidenti si cagasse i Crash Test Dummies. Adolescente, precocemente avevo acquisito quel sesto senso che mi aveva condotto al giusto e meritato disprezzo di quell’autentica guerra del Vietnam spirituale che fu la musica mainstream anni '90, e mi diressi a un miscuglio informe e privo di guida di passatismo e midstream coevo, sentendomi parte di una sorta di carboneria fantasma di cui non mi venivano mai annunciate le vendite, in un luogo della mente solingo, storto e colpevole. In questo contesto acquistai a scatola quasi chiusa il debutto The Ghosts That Haunt Me e il secondo, deflagrante God Shuffled His Feet, li amai ancora e ancora e non condivisi tale passione con niente e nessuno. Nemmeno in un senso oppositivo, non si trattava di dischi di cui mi vergognassi (come… altri di allora), né contribuivano a farmi sentire sbagliato; era proprio che dei cinque milioni di copie circa vendute da God Shuffled His Feet (più che altro nei paesi del Commonwealth esterni al Regno Unito, avrei scoperto poi) concepivo che una frazione era finita in Italia, ma non sapevo figurarmi in quali case — ero così spaesato che, con tutto il mio nevrotico scrupolo, non sapevo nemmeno se vergognarmene.
Solo anni e anni dopo, più attaccato alla rete, avrei spiccato qua e là qualche commento sparso di sconosciuti che, per lo più, biasimavano la voce di baritono-basso così caratteristica del frontman Brad Roberts (presumo per la tessitura poco convenzionale e una certa indulgenza sul fry, almeno in studio — un giorno scriverò un lungo trattato sulla sconcertante ineducazione all’apprezzamento delle voci in cui mi imbatto di continuo, ma non oggi), e nulla di più. Anche la storia del gruppo non era di nessun aiuto; il terzo A Worm’s Life aveva segnato una battuta d’arresto nonostante due singoloni (ci torniamo dopo) e poi, come molte altre meteore, il gruppo si era dissolto — solo molto dopo mi sarei imbattuto in quello strano canto del cigno che fu Songs of the Unforgiven del 2004; al tempo dell’uscita ero impegnatissimo a diventare il folkster coi licheni sulla schiena che sono oggi. Non sapevo cosa fosse successo al gruppo, e tutt’intorno non incontravo che il silenzio, punteggiato dall’ovvio, scontato oblio a cui il gruppo era stato consegnato dagli agenti della Buongusto di qualche ondata dopo, la famigerata seconda ondata di hipster — i quali non vedevo nemmeno spendersi a dirne male, tanto ovvia era la loro insignificanza a quel punto. I Crash Test Dummies sono il gruppo simbolo, a posteriori, di quanto le mie scelte fossero agli antipodi di tutto quel che è coolness, nemmeno contrari a quel che è giusto ascoltare ma più prosaicamente fuori: il fatto che di anno in anno, di rinnegamento in rinnegamento, comunque tornasse in qualche autunno1 quello spasso continuo, senza requie né cali, con quei testi irresistibilmente stupidi e pieni di associazioni da buffone della classe che è God Shuffled His Feet; lo sguardo con cui osservavo lo svolgersi di una storia del tardo pop-rock in cui titani e nuovi salvatori cadevano uno dopo l’altro mentre loro, proprio loro, non mi parevano aver perso il loro smalto di uno iota, tutto questo era so uncool. Era la mia via, né tragica, né traumatica, né segnata da stigmi. Solo una via da normaloni che, in salotto, fanno andare delle gemme dimenticate per tirarsi su e non lo dicono a nessuno, e un bel dì vanno al concerto a cui mai avrebbero osato andare tanti anni fa per poi raccontarlo in una newsletter, mettendosi a nudo senza nemmeno la scusa di farci un ghello.
How uncool is that?
Entriamo con congruo anticipo in modo da compiere l’inesorabile rito del mettersi davanti. Le manovre non vedono grossi intoppi e guadagniamo un’ottima seconda fila. Nel tempo il club ospita altre persone e si può dire che, al netto del fatto che le piccole balconate sono state chiuse per l’occasione, risulta bello pieno, più di quanto ci attendessimo (specie il Pad, più pessimista di me sull’affluenza). La composizione del pubblico vede rappresentate tre generazioni: secondo la tassonomia d’oggidì posso stimare una buona rappresentanza delle ondate che vanno dai tardi X-er a — esito a dirlo — persino qualche zoomer, nonché un paio di casi che parevano di padri e figlie. A tal punto è giunta la frammentazione del pubblico, mi chiedo? L’esterrefazione è del resto condivisa dal gruppo: riunitisi nel '18 per un tour celebrativo del debutto The Ghosts That Haunt Me ristretto al Nordamerica, persino per loro il riscontro è stato del tutto inaspettato. Del resto, voi sapete di qualcuno che ascoltasse i Cr… ok. Siamo circa a metà dell’esibizione del gruppo spalla, un duo indie italiano a me del tutto sconosciuto dal nome di Frisàri, che si presenta in modalità semi-acustica, con frontman dotato di chitarra elettrica e suonatore di cajon più defilato. Al di là della struttura indie dei pezzi (insomma, quelle progressioni lì che riconoscete al volo anche voi) e dei testi immersi in un quotidiano borioso, mi ha fatto piacere scoprire che nell’indie è stato recuperato un certo senso del groove, con l’uso del cajon piuttosto efficace. In ogni caso eccoli lì, altri due zoomer tutti contenti di aprire per i Crash Test Dummies. Sconcertante.

Radio con pezzi rock pescati qui e là (riconosco gli Smiths), parte il fumogeno, le luci si abbassano, arriva un brano classico che non riesco assolutamente a ricordare (un pifferaio professionale, e assolutamente non influenzato dalla sua tendenza a entrare in trance ai concerti!) ed entrano i nostri! La formazione è cambiata rispetto ai tempi d’oro, principalmente per l’assenza di Benjamin Darvill, polistrumentista che contribuiva al lato folk del gruppo, fornendo armoniche a bocca e mandolino oltre alle chitarre extra; così come manca il tipico doppio set di tastiere dei concerti di allora. Ci sono gli altri membri storici, con la solidissima sezione ritmica di Dan Roberts (fratello di Brad, ora col capello cortissimo) al basso e l’ottimo batterista Mitch Dorge, dal bello stile pulito, preciso e un po’ triggerato; seguono a ruota i cervelli del gruppo, Brad Roberts ed Ellen Reid, che come avviene in molte reunion si sono accasciati e si presentano soprattutto come cantanti, suonando solo occasionalmente — Brad prende la chitarra soltanto per qualche solo e riffettino qua e là; Ellen cede il set di tastiere in favore, ogni tanto, di una sciccosissima fisarmonica programmabile di cui mi sono invaghito lì per lì, e per il resto ricopre il suo ruolo storico di diluizione della voce di Roberts con un registro di mezzosoprano più dolce. A completare il quadro i due nuovi turnisti, Stuart Cameron che apporta il grosso delle chitarre e Marc Arnould, tastierista tarantolato che estrarrà anche il keytar verso il finale. Nel complesso un set indurito e più chitarrocentrico di quello di allora, che mi investe con un’energia che avevo qualche timore di non trovare; turbata solo dagli immancabili problemi del fonico, non ultimo un fischio ricorrente2. Il gruppo saluta, va subito al sodo ché la gente il giorno dopo deve lavorare e infila una dozzina di brani serratissimi: si parte con The Ghosts That Haunt Me, title track del debutto che mette subito dell’umore, e si passa subito al disco celebrando con le associazioni mentali inani di In the Days of the Caveman, la galoppata irresistibile di I Think I’ll Disappear Now, e quella piccola gemma da prog scemotto di How Does a Duck Know? Nel mentre io sono scattato come una molla, canto tutti i ritornelli e pure qualcosa in più. Ambedue, Pad e io, siamo presi benissimo, il gruppo è pieno di energia e ci ricorda di quei bizzarri Nineties in cui i gruppi più blasonati una volta sul palco erano regolarmente cagnacci, mentre tutto cambiava appena si scendeva di classe.
A seguire la title track God Shuffled His Feet, con le questioni teologiche irrisolte attraverso una parabola il cui senso sembra perduto, come un Mabinogion moderno. Poi la deliziosa ballatona Swimming in Your Ocean, che risponde allo spleen dell’epoca con le scuse del cantore alla sua bella per il fatto di vagare con la mente mentre le sta leccando la figa. Dopo le aneddotiche di The Psychic e Two Knights and Maidens il disco viene abbandonato per un po’ in favore di The Ballad of Peter Pumpkinhead, altra hit d’epoca presa dal successivo A Worm’s Life e caratterizzato da Ellen alla voce principale. A seguire una parentesi lentona, con Superman’s Song e i suoi commenti assolutamente normie su dei fumetti della silver age; e il brano singolo rilasciato quest’anno, Sacred Alphabet, con un piano romantico e inquietante ad accompagnare delle considerazioni sul silenzio al principio dell’universo (l’una e l’altra, sooo uncool!). Infine si chiude la prima fase con la movimentatissima Afternoons & Coffeespoons, divertita riflessione sull’inesorabilità del tempo giocata tutta su un’assonanza del menga — col leggendario solo di Darvill, fatto con due armoniche di due registri diversi, rimpiazzato da un lungo bridge coi soli e Cameron che divide il pubblico in due per farci fare il coro alternato.

Segue il rito del ritiro e dell’encore, fatto in frettissima perché lo sanno anche loro che è la cosa più stanca di questo mondo. Si passa al brano più sorprendente, la ballata drammatica Heart of Stone (da quello scherzo indefinibile che è Oooh La La! del '10, manifestazione estemporanea di un rilancio mai avvenuto); si onora la tradizione di fare la carola di Natale con una Jingle Bells pestatissima con solo di organo — un udibile “va’ a da’ via il cül” qui mi è scappato, ma fatto ridendo —; poi la galoppata di He Liked to Feel It — altro singolo da A Worm’s Life, altresì detta “quella del video col tizio che non riesce a cavarsi un dente” — con una sfilza di soli (keytar incluso), le presentazioni, i saluti e, per chiudere tutto, l’inesorabile inno alalico di Mmm Mmm Mmm Mmm con cui tanti li hanno conosciuti (non io, invero); e non poteva essere altrimenti. Scaletta più che buona al netto delle inevitabili teste cadute (mi sarebbe piaciuto sentire At My Funeral soprattutto) per un’oretta e mezza di concerto, ovvero il giusto3, da cui usciamo satolli e allegri.
Una serata normalona tra normaloni, e tutto molto uncool — e la melanconia di non esserci andato allora perché chissà che mi diceva quella tazza di semolino che avevo per cervello. Prendo congedo e ci salutiamo, si torna all’oggi e a tanti bei dischi di cui vi devo parlare. Alla prossima!
I miei ascolti ricorrenti (quelli, cioè, indipendenti dalla necessità di seguire le uscite) seguono in buona misura le stagioni, sì. Questione di meteosensibilità, immagino.
Non si dimentichi a questo proposito Matteo 23, in cui ricorre: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, nonché fonici”.
Le rockstar attempate che devono dimostrare di “averlo ancora” coi concerti di tre ore sostenuti a colpi di bamba devono smetterla per il bene del mondo: una durata del genere va bene per La Passione secondo Matteo, diamine. Non ci vedo altro che lo scivolamento della gioia e della condivisione nella compulsione.