Piffero Roundup #16
Altın Gün; Aziza Brahim; Frances Chang; Lankum; New Dangerfield; Riccardo Pisani e La Smisuranza; Daisy Rickman
Sono in megaritardo, tra accavallamento di impegni eterogenei e alcune difficoltà di cui ho detto nell’ultimo editoriale. Gli impegni si assottigliano e andrò a migliorare, abbiate fiducia! E diamo seguito a questi buoni propositi cominciando senza por tempo in mezzo.
È uscito (da un bel po’…) il disco di Daisy Rickman, musicista folk e pittrice cornica, che avevo anticipato a suo tempo. Howl, ricordo, deve il nome al termine cornico per indicare il sole, niente a che fare con ululati. L’artista si propone espressamente, a partire dal quadro in copertina — realizzato da lei, come di consueto —, di rendere omaggio al sole, alle stelle, ai cicli astronomici e a quelli interiori (compreso quello della vita e della morte, complice la dedica alla nonna defunta); costruendo un contraltare al precedente Donsya a'n Loryow, dai temi evidentemente lunari. Come quella volta, la Rickman ha lavorato in solitaria, prendendosi tempo, agio e diverse sessioni, e sovraincidendo tutte le parti strumentali — che sono parecchie, tra cordofoni misti, fisarmonica, clarinetto e synth. Il risultato è il tipico folk meditabondo e disteso della Rickman, spiccatamente settantiano e brunito dalla sua voce di contralto scurissimo, e come di consueto abbiamo momenti notevolissimi — i crescendo ctoni e lenti di Bleujen an Howl e dell’inesorabile Feed The Forest; la melanconica dolcezza di Signpost To The Stars, l’intermezzo groovy e rumorista della title track — in un contesto che risulta ombelicale e adeso a idee musicali ripetute con una frequenza un po’ eccessiva per il pieno coinvolgimento dell’ascoltatore. Ma il buon folkettaro non vorrà negargli un ascolto.
La mia riscoperta della psichedelia è relativamente recente, sicché in materia sono persino più ignorante che nel resto. Così non conoscevo, benché fosse attiva già da anni, frances chang (lei usa le minuscole e io rispetto l’usanza), nota anche col nome d’arte di Plutoness, un altro caso di musicista e pittrice, ma in questo caso di stanza a Brooklyn, New York e di origini cinesi, dedita all’esplorazione artistica del pensiero magico e alchemico. Il suo ultimo disco (il secondo a nome chang, escludendo vari EP) ha nome Psychedelic Anxiety, col titolo che richiama proprio lo stato d’animo che il disco intende evocare: un “disagio metafisico” che ha il sentore di una resa dei conti col proprio sé. Con un gruppo eterogeneo in cui spicca il suo fidato ingegnere del suono Andrea Schiavelli (già a capo dei pestosi Eyes of Love) la chang getta una rete nei Sixties & Seventies per tirare a riva della sottile inquietudine, a suon di ballate in acido e sottili trasfigurazioni — First I Was Afraid ricolora a tinte fosche il classico disco I Will Survive, con una bizzarra operazione di cover non cover; Eye Land è un prog concepito durante un viaggio in Irlanda e Inghilterra e sa un po’ di Canterbury ibridato con gli U2 (più sfacciatamente settantiano invece il lento Darkside); Ya A Mirage ha un po’ il sentore heavy degli Heart se non ho perso la Trebisonda; si va su suoni più tipici del rock orientale nel finale, con le declamazioni groovy di Rate My Aura. Il tutto è carico di una grande introversione, di una tendenza all’avvitamento nei rimandi, che intriga sottilmente, sebbene non sempre catturi. Un oggetto ruvido e strano, a cui devo soprattutto un senso di guardinga sospensione.
Ci spostiamo nel campo accademico col nuovo disco di un ensemble che, almeno in rete, è decisamente defilato, o perlomeno io ho fatto davvero fatica a reperire informazioni. Si tratta de La Smisuranza, un terzetto di arpe doppie, nientemeno, con a capo Chiara Granata. In questo ultimo lavoro, Harpa Romana, l’ensemble collabora con Riccardo Pisani, ottimo tenore specializzato in musica antica — dallo stile abbastanza modernista che mi ha ricordato il grande Marco Beasley, sebbene se ne distingua per un’emissione più forte e decisa — che omaggia la sua Roma con una selezione di brani composti da arpisti del tardo Rinascimento, e arrangiati1 da Riccardo e Chiara per l’occasione.
Abbiamo così pezzi di Leonardo Mollica, Orazio Michi, Marco Marazzoli e Giovan Carlo Rossi (fratello del Luigi maestro della cantata) fra cui spiccano Più non armi la mia lira del Michi, la struggente E pur volsi innamorarmi del Marazzoli e la madrigalesca È così dolce la pena del Rossi; non mancano poi divagazioni strumentali come l’Arpa del Falconieri, la splendida Toccata per spinettina sola overo liuto del Frescobaldi, la Toccata per Florete Flores di non si sa chi e un altro momento magistrale con La Ragana del mio sempre amatissimo Stefano Landi. Siamo nel contesto di riproposizioni piuttosto ardite, ma condotte con brillantezza adeguata. Vi lascio al disco su Spotify e al video dell’esecuzione di E pur volsi innamorarmi.
Altro giro, altra artista femminile (un po’ di riepiloghi saranno sul ginocentrico andante, ve lo dico subito) con un altro disco che avevo anticipato tempo fa e che ha fatto ampiamente in tempo a uscire mentr’ero in altre faccende affaccendato. Si tratta del ritorno di Aziza Brahim, la cantante sahrawi di stanza a Barcellona che da un pezzo si è fatto un nome col suo Afro-blues limpido e intenso. Vediamo confermato il bel misto ibero-sahariano promesso dai singoli, con chitarre suonate secondo l’ormai consolidata scuola sahariana. Notevoli diversi episodi, come Metal madera che rilegge in maniera interessantissima una tipica “galoppata” rallentandola e quasi restituendola al blues (e se ve lo dico io che non reggo l’hard rock molto più della sirena dei pompieri…), Marhabna 2.1 che è una reincisione della sua vecchia Marhabna; il para-indie rock di Duaa, e Ljaima Likbira, dedicata dall’artista alla nonna e dalle sonorità più radicate nei luoghi d’origine. Una buona ripresa del vecchio mordente (che come dicevo anche allora, sentivo un po’ perso nelle ultime uscite) e un ottimo disco in generale.
Torniamo brevemente su territori psichedelici per il nuovo singolo degli Altın Gün, turchi di stanza ad Amsterdam e avanguardia dello psych anatolico, che avevano stupito una volta di più l’anno scorso col graffiante Aşk (che non feci in tempo a coprire, me tapino), il quale tornava alle sonorità settantiane e acidule tipiche degli esordi e un po’ persesi nel mentre. Qui abbiamo due bei pezzoni, la graffiante Vallahi Yok e l’elettropoppettara Kirik Cam, che fanno seguito all’ottimo riscontro del tour europeo e che vengono pubblicati a titolo di regalo d’addio della cantante e frontwoman Merve Daşdemir, la quale ha lasciato il gruppo. Quest’ultimo lavorerà in seguito a una nuova uscita senza, apparentemente, l’intenzione di rimpiazzarla. Staremo a vedere.
Proseguiamo la sezione singoli col folgorante debutto del supergruppo New Dangerfield, quartetto bluegrass tutto afroamericano composto dal maestro dell’Afrofuturismo Jake Blount (ascoltate The New Faith e convertitevi), la banjoista di Montreal Kaia Kater, l’altro provetto banjoista e insegnante Tray Wellington (da Raleigh) e Nelson Williams, contrabbassista di New Orleans già membro della Black string-band e turnista affermato. Il gruppo prende il nome da Dangerfield Newby, il più anziano dei guerriglieri dell’abolizionista John Brown, e il disco omonimo dovrebbe essere un concept album sfavillante. Il singolo, appunto Dangerfield Newby, è bluegrass di prima forza, strumentale, velocissimo, dalla gamma di frequenze quasi saturante, e promette benone per il resto. I concerti del quartetto partono in estate e presumo che il disco uscirà nei dintorni di luglio.
Ultimo singolo e chiusura del riepilogo con Loro! I Lankum di Dublino, dopo averci deliziati e sconvolti l’anno scorso con False Lankum (qui i miei elogi) hanno fatto il botto sul serio e, dopo un tour di tutto rispetto, finalmente pubblicano un disco dal vivo. Live in Dublin, in uscita a giugno, raccoglie registrazioni tratte da tre serate nella Capitale e viene annunciato da una sensazionale The Rocky Road to Dublin, tradizionale arrangiato già da anni pezzo forte dei concerti del quartetto eppure mai apparso in una versione di studio — forse per non rischiare di guastarne la ruvida bellezza: il classico racconto di minute peripezie in 16/8 col diciassettesimo ottavo a sorpresa viene proposto a cappella con drone; le voci, sempre ruvidissime e dominate dall’ipnotica Radie Peat, intrecciano dei bizzarri monotoni da cui la melodia sembra faticare a emergere, tenendo sempre alta una tensione che viene rilasciata solo col fulminante solo di concertina in chiusura. Insomma i Lankum, ovvero l’Irish trad rivoltato come un calzino ed espresso in tutto il suo vigore. Con loro ho il piacere di salutarvi e darvi appuntamento alla prossima!
In musica accademica, l’arrangiamento non è che la trascrizione di una partitura per adattarla a diversi strumenti o gruppi di strumenti. Un pifferaio didattico.