Piffero Roundup #18
Naima Bock; Amaro Freitas; Rhiannon Giddens & The Silkroad Ensemble; Lankum; Sam Lee; The Marais Project & Langborn/Welden; Luis Peixoto; Katherine Priddy; Richard Thompson
In questa tornata tanto tanto folk, ma con un po’ di varietà. E vedo anche di sbrigarmi, ché è il caso…
Graditissimo il ritorno del Marais Project, l’ensemble di musica antica di Sydney che fa capo a Jenny Eriksson e Tommie Andersson — erano apparsi da queste parti in occasione dello splendido Australian Monody, a mio avviso anche migliore del precedente Two, che immagino rimanga ad oggi il loro lavoro più blasonato. Il nuovo disco dichiara bene i suoi intenti fin dal titolo: Nordic Moods & Baroque Echoes rinvia alle origini svedesi dei membri fondatori grazie al rinforzo del Duo Langborn/Wendel, composto da Catalina Langborn al violino barocco e Olof Wendel alle percussioni e al cimbalon o salterio ungherese. Completa la formazione Susie Bishop, cantante australiana capace di cantare in svedese.
Il disco ripropone un repertorio proposto in alcuni concerti tenuti in Australia l’anno scorso, e c’è molta carne al fuoco: il tentativo di incontro fra musica popolare scandinava e accademia barocca si esprime attraverso composizioni originali — Löv som faller di Wendel e una stranezza quasi pre-barocca come Anna della Eriksson —, melodie popolari sapientemente riproposte in modo ricco e sentito — Kärestans död in apertura, con un’interpretazione moderna e suggestiva della Bishop; e lo strumentale Kristallen den fina a suggello, riservato interamente al duo — ed episodi strettamente accademici: la notevolissima Sonata in sol minore di Roman, compositore di epoca barocca di Stoccolma; Sans frayeur, del più tipico Charpentier; e per finire, l’ensemble titolare non può che cimentarsi con Martin Marais, e stavolta tocca a brani tratti dall’opera Alcione. L’interazione di violino e salterio risulta freschissima e tutta da sentire, la Bishop è una voce duttile e misurata, il disco è sanamente compatto e il livello sempre molto alto. Una volta di più, squisito. Qui sotto c’è anche il video del making of, oltre al resto.
Qualche riepilogo fa vi parlavo di Ship to Shore, il nuovo disco di sir Richard Thompson, tirando le somme su quest’ultima fase della sua carriera ed esprimendo alcune perplessità. Il disco ha fatto ampiamente in tempo a uscire e… vediamo un po’.
Come preannunciato il nostro rinuncia definitivamente al power trio in cui sembrava essersi acclimatato integrandolo con ben altri tre membri — Bobby Eichorn per chitarre extra, David Mansfield al fiddle e Zara Phillips ai cori — e dando vita alla formazione più grossa di cui si è servito da parecchio. Il disco, per stessa dichiarazione di intenti del suo autore, è una sorta di summa thompsoniana, in cui Richard vuole far sentire un po’ tutto quel che c’è nel suo suono — “British, Scottish, Irish, jazz e country e classica” (cito parafrasando un po’), tutto marcato dal suo caratteristico blues su accordature galliche che l’ha reso tanto illustre assieme alle mani d’oro con cui esegue il tutto — ho smesso di trasecolare da un pezzo per il suo tocco, che riuscì a suo tempo nel miracolo di agganciarmi senza speranza a dei brani più ossuti che semplicemente scarni, in un momento in cui ero preso più che mai dalla tendenza opposta.
Il tutto si conferma comunque non ispiratissimo neppure rispetto a uscite relativamente recenti, e soprattutto si svela un po’ a scoppio ritardato — si “parte” seriamente solo arrivati a Turnstile Casanova e Trust. Una volta di più il chitarristone sufi arabeggia un po’ (The Old Pack Mule, che mi rimanda alla più “dritta” e ficcante Gethsemane di ormai 21 anni fa); si segnalano inoltre la melanconia d’altri tempi di Lost in the Crowd, il rockabilly di Maybe dalla chitarra ritmica perfetta e un paio di bei Celtic blues con Life’s a Bloody Show e What’s Left to Lose. Lo premio in ogni caso per il dono di melanconia che mi ha fatto: Thompson è tra coloro che più mi costrinsero a stravolgere il mio gusto allorché ero già sulla ventina, e per quanto ancora lo avremo fra noi? Spero in un addio deflagrante, quando sarà.
Non ascolto molto jazz e non mi sento mai in grado di scriverne niente (ok, quello non lo sento davvero mai, ma diciamo che col jazz è peggio del solito), ma non posso sempre esimermi: in particolare scrivo finalmente qualcosa su Amaro Freitas, pianista di Recife in Brasile che nel '21 mi spazzò i non più moltissimi capelli col sensazionale lavoro ritmico dispiegato nel suo Sankofa, ultima tappa di una ricerca che attraversa la tradizione musicale brasiliana alla cerca di radici più autenticamente “black”.
Tre anni dopo eccolo con un nuovo disco, Y’Y (ne scrive la pronuncia come eey-eh, eey-eh), in cui cerca di testimoniare dell’impressione che la Foresta Amazzonica gli ha fatto, e del rinnovato bisogno di connessioni ancestrali che ne è derivato. Si parte con un’avanguardistica Mapinguari (Encantado da Mata) caratterizzata da un curioso effetto pluviale reso al pianoforte. Notevoli anche la title track col flauto traverso di Shabaka Hutchings, piena di invenzioni primitivistiche; la danza vagamente lounge di Mar de Cirandeiras (col chitarrista Jeff Parker); un bel viaggione come la straordinaria Sonho Ancestral, dai toni appunto rarefatti e onirici; e la chiusura improvvisativa, free e un po’ più familiare di Encantados, che segna una seconda metà del disco dai toni di maggiore modernità rispetto alle suggestioni ancestrali della prima. Se vi incuriosisce il mondo del jazz latino-americano, attraversato da una sempre più marcata decolonizzazione (che è un po’ il segno di grandissima parte di quel che si fa di buono oggidì, se ancora non ve ne siete accorti — e vale anche per la vecchia Europa, tra parentesi) fate un bel tuffo.
Appena nello scorso riepilogo dicevo del Live in Dublin dei Lankum, e finalmente ci siamo! Il disco ci dà un saggio del gruppo nell’attuale formazione dal vivo — col percussionista aggiunto John Dermody — con una rassegna di brani per lo più estesi e quasi tutti tratti dagli ultimi due miracoli di studio, The Livelong Day e False Lankum, la sola eccezione essendo la già apprezzata The Rocky Road to Dublin.
La lavorazione ex post è tenuta apparentemente al minimo, e l’insieme è formidabile come ci si aspetta: possiamo così riassaporare una Go Dig My Grave molto estesa (per oltre il doppio della durata rispetto alla versione condensata e “da single” proposta dai nostri eroi al Mercury Prize), una Hunting the Wren un po’ meno enfatica che in passato, una trascinante The Pride of Petravore sebbene relativamente più misurata rispetto all’adorabile baccano con Spider Stacy dei Pogues, e una coda strumentale con una Fugue estesa che conduce alla profusione di aerofoni della pirotecnica Bear Creek. L’unico serio difetto è anche inevitabile — con un repertorio di tale ricchezza e potenza da cui partire sono giocoforza molte le teste cadute, per la melanconia dell’appassionato. Siamo deliziati e straziati da The Wild Rover e The Young People che non possono mancare; ma per dirne una soltanto, quanto avrei agognato una The New York Trader come si conviene! Un esercizio spirituale intorno alla contentezza, già che c’è parecchio di cui esser contenti.
Approdiamo ai brani singoli di questa tornata; e tocca a una cantante della scena indie britannica, Naima Bock, già membro del gruppo post-punk Goat Girl, con un disco da sola all’attivo e uno in arrivo. Questo secondo corteggerà territori folkettari e avrà nome Below a Massive Dark Land (bel titolo, promette bene); per adesso possiamo saggiarne due brani: Further Away, un pezzo art folk breve, scarno e notevole, con accompagnamento di bouzouki e un baritono in parallelo alla bella voce pastosa di mezzosoprano della Bock; e a seguire Kaley, canzone distesa e ricca in ottoni che ci proietta in territori melanconici e settantiani — a partire dal vecchio Mercedes che appare nel video passando per una voce che mi ricorda una versione più sul grave della leggendaria Anne Briggs (sarebbe forse più appropriato l’accostamento a June Tabor, ma sono uno di quei cattivoni che la considera troppo fredda e quindi niente). Il disco esce il 27 settembre per i tipi della Sub Pop.
Se amate il folk più modernista, preciso e geometrico, avete pane per i vostri denti: torna con un nuovo pezzo Luis Peixoto, virtuoso delle mandole di Coimbra, dopo la prova quasi-space-folk di Geodesia, il secondo disco del '21. In questa Synchronized Chaos il nostro si allinea alla moda della parte ritmica realizzata per via meccanica, in questo caso con una serie di metronomi fatti partire in sincrono (wink wink).
Il risultato è un brano vivace, divertente e ben misurato, che mi rimanda a tanta musica per videogiochi e, di riflesso, a quel gruppo che si faceva bandiera di partire dalle composizioni più folcloristiche di Koji Kondo e di tanti suoi epigoni — i nostrani Sequoia Bisquits autori di quella gemma allegra e luminosa che fu Legno Liquido del '10, e ormai sciolti per, credo, problemi di ingaggi (ah, di dolore ostello!). Qui però siamo in territori più latini, per quanto sottotraccia, e va bene così. Non mi risulta che Luis abbia annunciato un disco, per adesso.
Se appena Rhiannon Giddens sforna qualcosa io non mi posso esimere (vi rimando alla puntata sul suo ultimo You’re the One). Stavolta il contesto è quello di un disco di omaggio alla carriera di Tom Petty, con diversi artisti attigui al country che ne fanno cover — dal titolo alquanto didascalico di Petty Country: A Country Music Celebration Of Tom Petty.
La Dama permette a Pwyll di riposarsi (ehp!) e offre una versione di Don't Come Around Here No More assieme al Silkroad Ensemble e a Benmont Tench, membro degli Heartbreakers di Petty appunto. Il brano è in lento crescendo, con sentori un po’ celticheggianti un po’ nipponici, grazie all’apporto molto sensibile (in tutti i sensi) dei flauti e delle percussioni di Kaoru Watanabe. Godurioso.
Visto anche il ritardo vi lascio abbondando un po’, con due brani dal vivo di artisti folchi che ho già coperto e che mi sono capitati sotto mano di fresco: Katherine Priddy che propone una toccante A Boat on the River ospite da Jools Holland (il bellissimo brano proviene dal suo ultimo The Pendulum Swing, da me elogiato a tempo debito); e un episodio dall’esibizione di Sam Lee al Festival di Glastonbury di quest’anno con una condensata ma magistrale Meeting Is a Pleasant Place, che soffre purtroppo della cattiva qualità della resa dei volumi propria dei brani presi dal Glastonbury (e anche del suo ultimo disco Songdreaming vi ho ben detto).
Che dire in chiusura? Chiedo scusa per l’attesa, per di più seguita all’annuncio dei miei ridotti impegni; e mi rendo conto di aver chiesto troppo alla formula del riepilogo, con questa pretesa di coprire quattro dischi per puntata più il resto: il processo ha perso agilità, ho rimandato altri scritti e di nuovo è suonato l’allarme rosso denominato “Inizia a sembrarmi un lavoro”: d’ora in poi, priorità alla frequenza delle pubblicazioni, e quel che c’è c’è. Alla prossima!