Piffero Roundup #23
Jordi Savall; Jon Boden & The Remnant Kings; Varo; Lisa O'Neill & Peter Doherty; Cole Stacey; La Banda Morisca; Daoiri Farrell
Vi sento, lì dalle prime file: “Una settimana di silenzio dopo tanti buoni propositi, eh, pifferaio cialtrone?” Per carità! A parte che ho avuto la prudenza di non fare promesse, ho preparato il terreno per l’avvenire, oltre che smaltire una non indifferente ansia datami da un ulteriore taglio alla presenza social (per non dire dell’utilissima estensione del browser con cui mi sono disfatto dei suggerimenti di YouTube). Ho tanto in serbo, l’ho detto e lo ribadisco. Cominciamo subito.
Iniziamo dal ritorno di Jon Boden da Sheffield dello scorso anno, dopo la bella e sontuosa prova solista di Last Mile Home (che chiudeva una trilogia ideale sul viaggio e sul riscaldamento antropogenico), la spassosa collaborazione a tema marinaresco con le Sea Song Sessions per finire con Glad Christmas Home, invero non estrosissimo disco natalizio in duo con Eliza Carthy. Stavolta Boden mette insieme un ensemble bello grosso dal nome di The Remnant Kings (il nome che spicca di più è forse quello del prodigio del fiddle Sam Sweeney) e lo mette al servizio di questo disco dal didascalico titolo di Parlour Ballads. L’idea è quella di riscoprire il genere della parlour music, quell’insieme di cantate da accompagnare al piano (sovente trascritte da arie o brani classici famosi) diffuse nel ceto medio britannico del XIX secolo, quando il pianoforte in salotto si andava diffondendo e i libri di spartiti si potevano comprare a buon prezzo — un repertorio squisitamente vittoriano, su testi spesso pomposi e patriottardi, che in seguito sarebbe stato liquidato come dozzinale. Boden non lo nega ma sostiene che in quei lidi vi sia anche molto materiale da rivalutare, un approccio alla canzone folk ingiustamente disprezzato da quella vecchia guardia di revivalisti che aveva più a cuore la working class, ed eccoci qua.
Per tutto il disco Boden cammina sul filo rosso del perfido midcult e si produce in parti per piano semplici, a base di accompagnamenti di accordi insistiti, sbilenchi e toccati forte, unendole alla sua tipica vocalità carica ed enfatica, mentre l’ensemble cerca di dare una rinfrescata al materiale erigendo un lustro muricciolo sonoro; il tutto al servizio di canzoni folk volutamente caricate e ricche in unisoni e coretti. È quasi una dichiarazione di intenti la sbrodolante The Bonny Bunch of Roses, ritratto di un Napoleone rosicone noto soprattutto attraverso una scaberrima versione d’antan di Nic Jones (pezzo cui peraltro sono legatissimo, per quel che vale), a cui Boden quasi sembra voler rispondere facendo il contrario, con tanto di accelerato a una certa. Non saprei bene come prenderla, così come resto interdetto dopo la precedente cucchiaiata di miele nel gargarozzo di On One April Morning; d’altra parte ci sono episodi che mi colpiscono in positivo, come Clock O’ Clay dal piacevole pizzicato ticchettante, una Mortal Cares dalle tinte latine e una Prentice Boy dal banjo intrigante. Comunque sia, in numerosi altri episodi mi ha punto vaghezza di mettere una mano sulla spalla di Boden e dirgli “Jon, con tutto il bene del mondo, mi sa che se deridevano 'sta benedetta parlour music c’era un motivo”.
Non mi si fraintenda, però! il disco è sempre molto competente, come da migliore tradizione di Boden; e potrebbe rappresentare una scoperta per voi, sicché vi invito a provare. In ogni caso rimango di massima ben disposto verso la smisuratezza e l’arrangiamento bello grasso, per cui oso sperare in sviluppi fecondi di questa prima prova, magari da parte di altri artisti.
Altro giro, andiamo in Catalogna per quello che è, invece, un piccolo e indiscusso classico discografico. La Alia Vox lo scorso anno ha infatti ripubblicato Lessons for the Lyra-Viol, disco del 1979 in cui il titolare Jordi Savall si cimenta in splendide composizioni monodiche di Alfonso Ferrabosco II, William Corkine e John Playford (siamo quindi in epoca pre-barocca, chiaramente). Il disco è stato reintitolato The Punckes Delight (come un brano di Corkine) e rappresentò a suo tempo uno spartiacque: Savall esegue tutto coi suoi strumenti forse più riconoscibili, la lyra-viol e la viola da gamba bassa, dando un saggio, a suo tempo ancora storico, dell’uso di strumenti ricostruiti nel contesto della musica antica. Disco fondamentale per conoscere Savall, se malauguratemente non l’avete ancora fatto, e da aggiungere alla collezione per gli altri.
Veniamo ai singoli, spostandoci in Eire per un singolo folk che è anche la ragione per cui ho rinviato questo riepilogo: volevo che ci fosse a tutti i costi, e così ho dovuto aspettare lo scorso martedì, quando è finalmente uscito.
Parliamo del ritorno delle Varo: il duo baroque trad franco-italiano con base a Dublino, costituito da Consuelo Nerea Breschi e Lucie Azconaga, ci aveva stupiti nel '20 con un debutto omonimo sotto l’egida di santo John “Spud” Murphy, e di lì a non molto ci aveva ingolositi presentando un disco di collaborazioni con nomi tra i più illustri della scena trad e folk d’Ibernia che prometteva faville. Il progetto si è però arenato a lungo per ragioni ignote (e su cui il duo è rimasto molto abbottonato), se non che ora, finalmente, ci siamo! Non vi dico quanto trepido!
Il primo singolo supera le mie pur rosee aspettative: Red Robin è un tradizionale arrangiato sofisticato, caratterizzato dal tipico intreccio di voci dimesso e fascinoso delle titolari e impreziosito oltre ogni dire dall’accompagnamento dell’ospite Alannah Thornburgh, giovane promessa dell’arpa irlandese che ha peraltro un debutto discografico in uscita a febbraio, il cui tocco viene rinforzato da quello del fiddle e del bouzouki, per un accompagnamento di carattere continuo che entra sottopelle. Il disco si chiamerà The World That I Knew, conterrà dieci tracce con altrettanti ospiti e gli dedicherò senz’altro una scheda in cui vi dirò bene tutto.
Restiamo in Eire per una canzone di protesta: la sempre grande Lisa O’Neill si unisce a Peter Doherty dei Libertines per una canzone politica sulla mordente crisi abitativa che sta affliggendo ormai da diversi anni una Dublino in via di turistificazione e sul dramma crescente dei senzatetto. Il brano ha i toni di una canzone di protesta dimessa e vecchio stampo, resa brillante dalla voce ruvida e inconfondibile di Lisa, salvo che Doherty vi inserisce un intermezzo recitativo sui derelitti della Dublino multirazziale di oggi.
Altro giro, altro singolo dall’ormai non lontano disco solista di Cole Stacey degli India Electric Co., Postcards From Lost Places, che si sta delineando come un lavoro incentrato su canzoni in relazione a luoghi. Questa Hard Times rielabora un tradizionale di metà Ottocento risalente alla guerra civile americana. In questo caso l’approccio di Cole è minimalista e speranzoso, asciugando il tutto in una stringata ballad per piano e voce registrata in una chiesetta.
Nel feed, senza preavviso mi appare un nuovo brano della Banda Morisca, il sestetto andaluso con a capo il frontman José Mari Cala che gioca col flamenco e le tradizioni del Mediterraneo. Questa Solito me voy è una rumba registrata in presa diretta che non so se preluda a una nuova pubblicazione, dopo il bel La Gitana Mora del '20.
Vi lascio con un tradizionale Irish per mano di Daoiri Farrell, genio delle mandole che per questa Slieve Gallion Brae (dal suo ultimo disco The Wedding Above In Glencree) fa però uno strappo e si aiuta con lo harmonium. Gennaio è un po’ così, è fatto di attesa e quieta tristezza. Teniamo duro che le cose arrivano.
Bene, abbiamo finito; ci aggiorniamo presto per una presentazione singola. Alla prossima!