Piffero Roundup #24
Ensemble Danguy & Tobie Miller; Róis; Katherine Priddy & Simon Armitage; Jim Ghedi; Chelys Consort of Viols; Kuunatic
Piffero Roundup è la rubrica con cui tengo il passo delle musiche che ci interessano, raccontandovi un paio di dischi e qualche brano singolo di recente uscita.
Da queste parti, sapete bene, non perdiamo mai di vista l’Irlanda, e ne riparliamo a proposito di un’uscita della fine dell’autunno scorso (le uscite dell’anno in corso arrivano presto, abbiate fede).
Questa volta tocca a RÓIS, in una Repubblica di artisti abbottonati la più abbottonata in assoluto, al punto di non metterci nemmeno, letteralmente, il volto (dice solo di venire dal Fermanagh, contea al confine con l’Ulster). MO LÉAN fa seguito al debutto Uisce agus Bean dell’anno prima (è tutto in irlandese, come si può evincere) e si inserisce nel solco del nuovo folk elettronico, duro e paganeggiante che orbita intorno a John “Spud” Murphy, che qui interviene saltuariamente in un disco per lo più autoprodotto. Il titolo del disco sta per “la mia afflizione” e il concept alla base si riferisce all’usanza del keening, una forma di sean-nós (canto per voce sola) tipico di Irlanda e Scozia con funzione funebre, un equivalente isolano dei lamenti delle prefiche. RÓIS costruisce un nuovo keening a suon di teatro, elettronica, dub, persino trip-hop oserei dire, con una voce squillante che è venuto facile ad alcune penne associare a Bjork ma in cui io riconosco piuttosto il belting di Sinead O’Connor, se proprio un paragone s’ha da fare — oserei dire con atmosfere non così dissimili, a tratti, da quel 100th Window in cui Sinead prestava la voce ai Massive Attack.
I brani sono inframmezzati dalle campane dell’Angelus, e dalla declamazione di What Do You Say si passa al brivido sottopelle di CITÍ e al potente brano portante CAOINE, di cui potete anche apprezzare il video qui sotto. OH LOVELY APPEARANCE OF DEATH, dopo la ripresa dell’Angelus, è poi una spettacolare aria più pienamente folk. THE DEATH NOTICES scherza sulla morte a suon di campionature, poi il brevissimo disco si chiude col recitativo di FEEL LOVE che vi riporterà all’elettropop dei più avventurosi Nineties. Un gioco di generi e dissonanze per uno sconcertante servizio funebre che saprà deliziare molti di voi — sperando che, come spera anche l’artista, sappiate temere un po’ meno la morte dopo.
Passiamo alla musica antica coi tipi della Linn Records di Glasgow, che ci offre qualcosa di davvero speciale con questo Le Berger Innocent, frutto della collaborazione tra l’Ensemble Danguy, formazione internazionale che fa capo a Tobie Miller, virtuosa della ghironda nativa di Vancouver. Il resto dell’ensemble offre clavicembalo, spinetta, viella, strumenti pizzicati e violino; una formazione cameristica tipica.
Il repertorio risale al regno di Luigi XV di Francia, quando la moda era quella dell’imitazione campestre: la corte conobbe allora un folk revival d’altri tempi (questo me l’invento io adesso, mi diverte) con composizioni che coinvolgevano la ghironda appunto e la musetta, le pipes di allora — con canne extra per il bordone, sacca ad otre e mantice per l’aria, qualcosa di piuttosto simile a quelle uilleann pipes che il celtomane d’oggi dovrebbe avere ben presente. Con la strumentazione si cimentarono anche virtuosi come l’ «illustre» Danguy (che dà il nome all’ensemble) e Colin Charpentier (che non è il più famoso Marc-Antoine, ma un discendente, se ho ben colto), così che il repertorio pastorale risultò altamente sofisticato.
Apre le danze (letteralmente) la cantatille di Louise Lemaire dedicata proprio alla musetta — presta la voce, qui e in seguito, l’interessante soprano Monica Mauch —, segue la Ire Sonate “campestre” di Monsieur Ravete, particolarmente trascinante. La Sedicesima sonata per due vielle di Jean-Baptiste Dupuits risulta ricercata e molto interessante per le orecchie moderne, con la sua melodia emergente. Boismortier offre una bella polifonia con la sua Quinta Gentillesse; Boüin offre il suo Quarto divertimento campestre, con la follia fatta di una sorprendente interazione tra la ghironda e una viella che assume il timbro di un legno ad ancia, come un oboe (ma anche il minuetto non scherza). A dare il titolo al disco è il tradizionale Le Berger Innocent, fascinoso e commovente, sempre con cantato della Mauch. Il risultato complessivo non è forse il massimo dell’organicità e sarete forse respinti da un repertorio in via di riscoperta e giudicato minore; ma potrebbe invece prendervi bene in quanto disco di antica affatto diverso dal solito. Per un grezzo folkofilo come me risulta poi sonoramente di grande interesse, specie per come la Miller sa dispiegare le possibilità della ghironda.
Lascio il video col minuetto di Boüin e l’anteprima del disco via Spotify — condividere con Spotify si sta facendo sempre più atroce, visto come spinge ad andare direttamente sul servizio; ma finché le etichette non imparano un po’ io ho le mani legate.
Passiamo ai brani singoli. La collaborazione tra Katherine Priddy e Simon Armitage prosegue e, dopo il bellissimo brano invernale Close Season (che vi avevo proposto per l’Avvento, insieme a tante beltà che mi auguro di cuore per voi non vi siate persi) gli danno un seguito per celebrare la ricomparsa del sole (e si può ben dire che vada celebrato, se chiedete a me): Daybreaker è un brano più leggero e dal testo più classico e offre il consueto, irresistibile misto priddiano di arrangiamento grasso con qualche tratto shoegaze, chitarra a dita e adornazioni melodiche abbondanti ma mai a un punto stucchevole — con in più dei coretti sessantiani nella cui risorgenza spero abbastanza vivamente. Nel complesso preferivo il più incalzante predecessore, ma in questi giorni serve dolcezza.
Sul finire di febbraio torna con un nuovo disco Jim Ghedi, la ramatissima promessa del dark folk; durante la mia latitanza fece in tempo a far uscire il primo singolo, e appena ho fatto in tempo a tornare che ha sfornato il secondo. Li propongo ambedue adesso e non ci pensiamo più.
Il disco Wasteland vuole essere una prova particolarmente ambiosa per il Jim, che intende abbracciare l’oscurità fino al parossismo, con un disco di grande ampiezza sonora. Possiamo udire due lati di questa faccenda coi toni un po’ shoegaze-folk (se la cosa ha senso) della title-track e l’inaspettato folk un po’ stoner in formazione minimale del successivo Sheaf & Feld; ambedue i brani impreziositi dall’enfatico registro di baritono del titolare. Il dispiego di varietà e ambizione ingolosisce ma mi lascia anche qualche timore che il disco finito possa perdere la Trebisonda; attendo comunque fiducioso.
È di un mesetto fa questa nuova registrazione del Chelys Consort of Viols, lo squisito ensemble britannico specializzato nell’uso di viole e vielle su registri diversi (avevo presentato il loro disco sulle fantasie di Purcell all’alba di questa mia avventura; nel mentre è uscito anche il grandioso The Honour of William Byrd, che non seppi coprire). Qui si esegue la Fantasia a 5 n. 5 di Leonora Duarte, compositrice barocca di Antwerp, con un avvicendamento di voci di ottimo gusto. Di un disco in uscita niente so.
Chiudiamo con un po’ di psichedelia, stavolta da Tokyo, col secondo disco in uscita di un gruppo che non conoscevo: le Kuunatic, un trio femminile che unisce appunto psych, un po’ di garage, un po’ di prog, e un po’ di strumentazione tradizionale; per un risultato che mi riporta a quello space folk che in effetti mi stava mancando un po’. Il debutto Gate of Klüna narrava le vicende del loro pianeta d’origine Kuurandia (!), questo Wheels of Ömon, atteso per aprile per i tipi della Glitterbeat di Amburgo, dovrebbe esserne la prosecuzione. Intanto godiamoci la rumorosa e affascinante Disembodied Ternion, con cui vi lascio e vi do appuntamento alla prossima. Ci aspetta la nuova rubrica — in realtà molto intuibile se avete presenti le mie ruminazioni di fine anno —, perciò non mancate!