Piffero Reportage: Anna B Savage all'Arci Bellezza, Milano, 28 aprile 2025
Un invito ad abbracciarci in registro di contralto
Per cominciare, le mie scuse per il silenzio assoluto della scorsa settimana: l’accavallamento di impegni prima del ponte e il ponte stesso trascorso dai parenti non mi hanno permesso di finire nulla per la newsletter — ah, la mia creatura, quanto soffre! Debbo soccorrerla!
È dallo scorso ottobre che non facevo un reportage del Piffero (e quello, a sua volta, seguiva il precedente di oltre un anno!), e sono ben contento di riprendere — anche perché significa che sono andato a un concerto, evento parecchio più raro di quanto mi piacerebbe. A darmi l’occasione è un’artista che, per mia dabbenaggine, ho scoperto solamente di fresco: Anna B Savage, cantautrice originaria di Londra ma fresca di un trasferimento in Irlanda per amore di un uomo — ciò cui ha dedicato il suo terzo disco lungo, quello You & i Are Earth che mi ha davvero sorpreso un po’ di tempo fa col suo approccio devoto a certe grandi del folk del passato ancorché intimo, coinvolgente ed entusiasta — nonché col suo registro di contralto scuro versatile e potente, impreziosito da un fraseggio di un’eleganza che non s’incontra spesso. La nostra ha concluso il suo tour nel continente europeo con l’unica data italiana il 28 aprile scorso, e vo a raccontarvene con la mia consueta verve.
Il luogo è il Circolo Arci Bellezza in via Bellezza a Milano, cui ero tornato alcune settimane fa dopo alcuni anni per rifare la tessera necessaria a partecipare all’evento — cosicché ho rimembrato i tempi prepandemici, quando fui proprio lì per un concerto degli Alzamantes che accompagnavano balli di gruppo che non sapevo fare e bazzicavo soprattutto un altro circolo Arci, il Biko, durante un breve periodo da tanguero che spesi ad apprendere la rottura del ghiaccio nel più duro dei modi (ah! Quante storie avrò da raccontare un giorno, prendendo il fresco della sera sul patio, col banjo a portata di mano).
Il concerto si tiene nella tipica aula magna in fondo, raggiungibile oltrepassando il bar — lo spazio è come lo ricordo, cioè di areazione rivedibile e sprovvisto, ahimè, di guardaroba, per cui ho dovuto farmi tutta la serata con in mano il mio zaino gravato di attrezzature portate direttamente dal lavoro. Una nota di demerito, per cominciare.

Ad ogni modo riesco a mettermi piuttosto avanti — abbastanza per spoilerarmi la scaletta, come piace a me — e qui siamo a un’altra nota di demerito: le ore 21:00 riportate su biglietto e manifesti segnano l’ingresso, non l’inizio del concerto per cui attenderemo un’altra buona mezz’ora — una vecchia prassi che molti club non usano più e che speravo consegnata all’oblio. Ma siate lieti, le lamentele finiscono qui. Il pubblico è quello che mi aspettavo nella mia completa e uncool assenza di aspettative, ossia un insieme eterogeneo e per lo più normie di diverse fasce d’età, dalla sessantina in giù fino alle coppie di morosetti liceali o giù di lì — una nicchia ecumenica, quel che può produrre l’indie-folk-pop venato di elettroniche di Anna; nonché relativamente corposa e sufficiente a riempire la sala o quasi.

Dopo una playlist d’attesa in cui riconosco Anna Mieke (che ha collaborato con l’omonima che qui ci interessa alla bella Agnes, che essendo la Mieke assente giustamente non si farà), la star fa il suo ingresso insieme alla band e non pone tempo in mezzo attaccando col crescendo di Corncrakes (dal primo disco A Common Turn), perfetta per aprire. Possiamo apprezzare subito le sue doti e quella dei tre ragazzi che la accompagnano: oltre alla stessa Anna a voce e chitarra acustica abbiamo Genevieve Dawson a tastiere e chitarra aggiunta, Peter Darlington al basso — suonato anche ad archetto, a produrre dei continui e dei drone che mi hanno davvero stupito — e Joe Taylor, un batterista di questa nuova guardia in cui mi sembrano spesso essersi formati prima come percussionisti, con un’attenzione al lavoro timbrico davvero affascinante (specie gli effetti prodotti sfregando sui piatti). Tutti i ragazzi, presentatici da Anna poco dopo, forniscono anche i cori, con sostegni semplici e sporadici, ma ben eseguiti e inaspettati. L’esecuzione sarà sempre di ottimo livello1, Anna è potente come su disco e non sbaglia un colpo, e la chitarra dalle accordature apertissime mi riporta all’uncoolness isolana che tanto amo. Inoltre, dopo essermi lamentato devo fare ora i dovuti complimenti all’organizzazione: i capricciosi dèi dei fonici sono stati propizi e, una volta tanto, suono e amplificazione non sono per niente male. Bravi.
Si prosegue con Hungry (elettroballatona dal precedente In|FLUX) e subito dopo, prima che il nuovo disco inizi a fare la parte del leone, Anna ci racconta del suo cambio di vita col trasferimento ibernico e ci introduce allo splendore arpeggiato di Mo cheol Thú spiegando che il titolo sta per “Sei la mia musica”, nel vernacolo di dove vive ora un modo per dire “Ti amo” (awww!). Tocca poi alla romanticheria di I Reach For You In My Sleep, alla delicatezza sessantiana di Lighthouse e all’apertura del disco Talk to Me. Si torna poi a In|FLUX (che è pur sempre il disco della consacrazione, o almeno io ho capito così) con un graffiante trittico costituito dallo struggimento di Say My Name, dal poliritmo graffiante di Pavlov’s Dog e dalla title track, con un piccolo colpo di teatro in cui Anna si accascia a terra mentre suona la traccia preregistrata. Non manca proprio niente, Anna è allegra e si prodiga in lodi per una band che sostiene di amare moltissimo e in felicitazioni per un pubblico caldo e numeroso con cui chiudere degnamente il tour.
Ci sono vari intermezzi in cui Anna ci chiede se ci sono domande fra il pubblico e fa dirigere verso di noi la luce (l’imbarazzo è rotto da un singolo “How are you?” cui la nostra risponde lieta), in cui racconta della gioia inaspettata di aver rotto uno stato di single che aveva tanto celebrato nei primi due dischi, e in cui infine ci presenta delle belle magliette stampate su suo design (si è finito un po’ tardi per me e non ho proprio avuto cuore di accalcarmi per prenderne una; ma giorno verrà). Nell’ultima parte del concerto si torna d’un tratto al debutto con le schitarrate sornione di A Common Tern e si approda di nuovo all’ultima uscita, con l’attesissimo dittico costituito dall’ingegnosa title track e dal trionfo dello splendido singolo Donegal.
Prima di chiudere Anna ci informa che concederà un solo bis e solo se azzecchiamo il brano — una fan tenta il tutto per tutto e spara “Donegal” sperando venga rifatta, Anna ride apprezzando il tentativo ma non va, quindi niente. Prima della chiusura di The Orange (episodio un po’ jazzy da In|FLUX) Anna raccomanda a chi è venuto accompagnato di abbracciare o toccare la mano della persona con cui è venuta, e conclude una serata intima e coinvolgente con un appropriato invito a cercare il contatto umano, anche fisico, là fuori, in risposta a una logorante vita moderna e all’epidemia di solitudine che attanaglia troppi di noi. Una signora alle mie spalle scherza sostenendo che chi è venuto da solo si sente mortificato a questo punto — presente! e francamente, no: vi dico anche io di ascoltare Anna che ha ragione, e che fa seguire le parole ai fatti con un bell’abbraccione a tutto il gruppo — il nuovo Romanticismo in cui si parla in tanti luoghi della rete2 fa così capolino, commovendoci.
Lo stanco rito del bis ci viene così risparmiato, esco satollo — e mi vedo passare la star della serata a due centimetri — e mi avvio a casa dopo un concerto durato il giusto, ché noi normaloni ci si alza presto. Giusto qualche appunto lampo preso per via — anche se devo dire che, se ancora percepisco la mia tipica trance da concerto che tende a farmeli dimenticare per il grosso (e che pare sia piuttosto comune), il fatto di dover scrivere i reportage in qualche modo mi dispone diversamente, e ora nella memoria mi resta molto di più. Grande serata, e un buon promemoria sulle cose che contano, che mi fa piacere condividervi qui.
Bene, abbiamo finito! Ora l’obiettivo è riprendere il calendario regolare della newsletter, anche se devo decidere ancora bene cosa fare col cumulo di arretrato che si è formato: la cosa più probabile è che rinvii ancora per un pezzo il ritorno dei Libri del Piffero — ce n’è uno che ho finito da un pezzo ma proprio non mi è riuscito di terminare e collocare l’articolo; e nel mentre sono già a buon punto con la lettura di un altro… comunque abbiate fede ché la rubrica torna, e in realtà non mi rincresce aspettare un po’: si è dimostrata impegnativa da tenere, e godere di un po’ di agio da differita non guasta. Nell’immediato ci aspetta una playlist con la nostra Anna e tanto altro. Alla prossima!
Segnatevelo ché magari tra qualche lustro se ne accorgono: a dispetto degli alti lai su autotune dilaganti e chitarre invendute, i musicisti di queste nuove infornate sono mediamente molto più studiati di chi li ha preceduti — non solo nei decenni più prossimi ma persino nei tempi d’oro del rock canonico, i cui esponenti contavano su una musicalità spesso spiccata, sì, ma anche brada; non fosse che per maggiori difficoltà nell’accedere a scuole e informazioni. Non faccio granché riferimento ai colleghi e non mi stupirei se fosse un segreto di Pulcinella, ma per non sbagliare, lo annoto.
Cosa che seguo con un interesse di cui sono io stesso stupito, visto un certo disdegno in cui ho sempre tenuto il Romanticismo (preferendogli non già l’Illuminismo, ma ciò che era prima ancora). Ma la vita continua, e inizio anch’io ad avvertire una necessità simile.
Spero tanto che questa setlist trovi dimora in una Piffero Playlist