Piffero Roundup #20
Alzamantes; Lluís Gómez; Oisin Leech; inoltre: Jake Blount & Mali Obomsawin; Fantastic Negrito; Seckou Keita; The Marais Project & Duo Langborn Wendel; The Rheingans Sisters
Eccoci col nuovo riepilogone! Di ritorno dalla pausa estiva, c’è molto da farvi sentire in vista delle ottime e abbondanti uscite previste in autunno.
Mi sono fatto attendere anche per un esperimento: voglio provare a fissare il giorno della pubblicazione, con l’idea di fissarlo, appunto, a lunedì. Postando nel fine settimana devo osservare che gli accessi soffrono almeno metà delle volte; inoltre il lunedì mi pare mediamente il giorno della settimana in cui la gente ha più bisogno di consolazione — e consolazione è precisamente ciò che mi sforzo di offrire. Ma non indugiamo oltre!
Cominciamo da un’immersione nello strumento più ingiustamente deriso del mondo, ovvero il banjo — da Barcellona arriva Dotze Temps, terzo disco da solo di Lluís Gómez, virtuoso dello strumento nella variante a cinque corde (nonché di violino e mandolino) e responsabile del Barcelona Bluegrass Camp (esiste una cosa del genere e c’è ancora qualcuno che pensa che il mondo non è uno scrigno di meraviglie). Per questo disco il nostro ha lavorato sul flamenco, provando qualcosa di diverso per ciascuno degli, appunto, dodici tempi che ineriscono al genere: il risultato è una sorta di carosello paneuropeo tinto di Appalachi, col contributo del violinista francese Raphaël Maillet (ottima la sua prova nell’originale Virton Banjo Musette), della chitarra e violino del ceco Ondra Kozák (sua la notevolissima, scazonte Barcelona Castaway) e del contrabbasso della catalana Maribel Rivero (che canta nel tragico tradizionale La Dama d'Aragó, di sapore antico, e offre le sue doti compositive nel pezzo di bravura in velocità Crunch Sister). Non si può poi ignorare un pastiche ai limiti dell’indefinibile come Zrádný Banjo (Polka On A Banjo), che è proprio quel che dice il titolo e molto di più. Una messe di esperimenti destinata agli appassionati dello strumento, il che comunque dovreste essere, diamine.
Tornano con un nuovo disco i milanesi Alzamantes, a ben nove anni dal precedente Tenetevi forte. L’ensemble (riducibile all’occasione anche in trio acustico, dal nome Alza Trad) propone un autodefinito hard folk destinato al ballo, con cui seppero movimentare varie piazzette e circoli della provincia prima che i lockdown li mettessero in ginocchio. Questo nuovo Laggiù, soffia offre ancora una volta la tipica pulizia produttiva dei dischi, che fa molto “rocker attempato” e che tende, a mio avviso, a spegnere un po’ troppo l’energia dispiegata invece dal vivo — ma da queste parti i dischi piace farli così, e bon. Il lavoro è comunque il grado di mettermi voglia, se ci sarà occasione, di sentire la resa di brani come Introversi, oscillante tra le due sponde del Mare Nostrum, la contemplativa Calma Mia, la similpizzica di Riturnella e gli approdi più gallici di Ali Finte e Courenta. Con la speranza di più coraggio nelle prossime sessioni di registrazione, sono comunque lieto di questo sussulto di vita delle parti mie.
Non è (quasi mai) una pifferata senza andare in Eriu, e col consueto ritardo copro il celebratissimo disco cantautoriale di Oisin Leech, uscito a marzo per i tipi della Tremone con la produzione (e ingenti contributi strumentali) di Steve Gunn. Cold Sea è il debutto solista di Leech dopo l’esperienza dei The Lost Brothers (insieme a Mark McCausland) e per l’occasione si fanno le cose in grande, col contributo di nomi del calibro di Dónal Lunny (dietro la lavagna se il nome non vi dice niente1), Róisín McGrory (ottima turnista al fiddle) e Tony Garnier (bassista del gruppo di Bon Dylan). La proposta è quella di un cantautorato rarefatto, morbido e denso di synth (curati dallo stesso Leech) a creare delle sorte di musiche di un quadro paesaggistico (belli e molto in tema gli oli, appunto, paesaggistici della pittrice Sinead Smyth).
Il disco sta incontrando molto riscontro nei circoli folkofili, e sta venendo promosso con relativa aggressività, come testimoniato dai numerosi video qui sotto — e non fatico a cogliere il fascino, nella forma di un viaggio su uno sterrato in cui possiamo incrociare Nick Drake, John Martyn e il miglior Paul Brady, con gran gusto da parte del gruppo nel costruire una setosa trama sonora su cui si poggia, prevalendo, la bella voce baritonale di Leech e i suoi tocchi di chitarra ritmica — per un risultato che avrei voluto un po’ più audace e sanguigno, per quanto non possa negare che il navigar è dolce in brani come la taylorista (nel senso di James) One Hill Further, le contemplative Colour of the Rain e Malin Gales, i bei tocchi di elettrica echeggiante di Maritime Radio e l’interessante escursione cinematografica della title track. Se avete voglia di qualcosa di settantiano ancorché ben rinfrescato, e che sappia creare un senso di luoghi senza tempo, tuffatevi senza indugio.
Passiamo ai brani singoli.
Avevo ben elogiato l’ottimo Nordic Baroque, frutto della collaborazione fra l’australiano Marais Project e lo scandinavo Duo Langborn/Wendel , e i due ensemble ci omaggiano di altre due esecuzioni. La prima è di un brano non apparso prima e destinato a un secondo disco (!); si tratta di The Streets of Forbes, brano folk australiano su un episodio di brutalità poliziesca. A seguire, l’originale Lov som faller (“Cade una foglia”), tra i brani più moderni e romanticheggianti del disco. Mirabolante l’uno e l’altro, va senza dirlo.
Chiudiamo con un’infilata di nuovi brani tratti da dischi di cui vi avevo già fatto cenno giusto la volta scorsa e la cui uscita si appropinqua; così va a settembre.
Cominciamo con Seckou Keita e la sua Chaque Jour, un bel pezzo alla kora cantato in francese. Si sa del nuovo disco, si chiamerà Homeland e quando esce non lo so, ma me lo aspetto entro l’autunno.
Torna anche Fantastic Negrito (lasciando Sting a casa stavolta) col bluesettone piuttosto dimesso di California Loner, sulla figura non proprio edificante del padre — sembra che Negrito voglia proseguire l’indagine sulle sue origini che era già alla base del precedente e spettacolare White Jesus Black Problems, ma stavolta saltando al presente e restringendo il campo alla propria infanzia. Son Of A Broken Man esce il 18 ottobre e da queste parti lo seguiremo senz’altro.
Altro pezzo dall’imminente e promettente Acadia di Yasmin Williams (ve ne dicevo giusto la volta scorsa, e lo stesso vale per i successivi) — un bluegrass strumentale e stranamente misto di melensaggine e virtuosismo dedicato ai passerotti, Hummingbird vede la partecipazione di Allison de Groot al banjo e Tatiana Hargreaves al fiddle, per un risultato che convince molto più verso la fine che non all’inizio.
Arriviamo a dischi che aspetto proprio tanto, stavolta con un altro singolo da symbiont, ardito frutto post-coloniale della collaborazione tra Jake Blount e Mali Obomsawin. Old Indian Hymn è tratto dal libello Indian Melodies by Thomas Commuck, forse il primo libro mai pubblicato a contenere la musica di un compositore nativo americano. A detta del Commuck è un inno risalente a prima dell’arrivo dei bianchi, la cui melodia avrebbe poi risentito a Plymouth durante una funzione di chiesa. Blount & Oboswamin sottopongono tema e testo al loro trattamento, fatto di intrecci percussivi, inserti vocali a opera dei Windborne e “sintetizzatori controllati da una pianta di assenzio” — mi limito a riferire senza avere idea di che cazzo abbiano combinato, so solo che il risultato è fascinoso e di incredibile gusto, considerata la delicatezza del materiale (a fare un disastro modernizzando materiale del genere non ci vuole niente).
symbiont esce il 27 settembre, come il disco sotto — tutto calcolato per svuotare gli stipendi dei lavoratori dipendenti, presumo.
E per finire, nuovo brano da Start Close In, l’attesissimo ritorno (con titolo tratto da David Whyte) delle Rheingans Sisters. Drink Up vede anche il primo video per questo nuovo opus (per la regia di Sam Wisternoff), un azzeccato e minimale accompagnamento a questa giga apocalittica incentrata sullo strano quotidiano di oggidì, con la ricerca un po’ nervosetta di piccole gioie e momenti conviviali mentre si avverte il senso di un disastro in attesa appena dietro l’angolo. Il brano sfrutta le medesime violente pulsazioni del precedente Devils e un’estesa gamma di frequenze (grazie all’accompagnamento di flabuta) per creare un brano in tempo dispari ballabile ma sempre, variabilmente teso — una perfetta materializzazione dell’umore che le sorelle volevano trasmettere nonché un altro pezzo da novanta, che mi rende sempre più curioso di sentire il prodotto finito.
Bene, per stavolta abbiamo finito. Non so ancora con quale rubrica proseguirò — ma so che mi vorrete bene comunque e che sarete sempre di più, com’è stato finora. Fatemi sapere se vi ho saputo allietare, basta rispondere alla mail quando vi arriva o lasciare un commento. Alla prossima!
Ma per poco e senza orecchie d’asino; da queste parti stiamo con Ivan Illich.