Piffero Roundup #11: Antistatic; Carion; Hirondelle
Inoltre: Avalon String Quartet; The Cure; John Smith
Eccoci di nuovo! Qualche disco già uscito e poco altro stavolta. Link agli ultimi due appuntamenti e si parte.
Cominciamo con l’omonimo di Hirondelle (“rondine”), progetto collaborativo che unisce il duo folk The Brothers Gillespie alle chitarre e voci, il trio d’archi Mythos e il trio folk occitano Tant Que Li Siam. Il disco è stato registrato qualcosa come cinque anni fa, appena pre-Covid, ma esce solo ora, immagino perché solo ora i componenti sono finalmente in grado di portarlo in tour. Come si può immaginare, il materiale è composto di tradizionali inglesi e occitani con arrangiamenti classicheggianti a cura di Sophie Ranshaw (che suona la viola nel trio). È commendevole senz’altro l’uso degli archi classici, più consapevole del solito — ci sono stati fin troppi tentativi di approcciare il repertorio tradizionale da artisti di formazione colta che, semplicemente, non riescono a trovare l’approccio corretto e irrigidiscono il materiale — e direi che il lavoro spicca nella parte centrale, con la lunga e romantica Ô Ventour e il dittico poetico-strumentale di Northumberland; ottimi in generale gli impasti vocali (nella conclusiva I Drew My Ship in ispecie), tuttavia l’insieme mi pare avere un po’ meno ardore di quanto gli sarebbe servito per spiccare tra l’agguerritissima concorrenza. Più che segnalabile comunque, potrebbe piacervi molto.
È infine uscito Relics, il debutto dei danesi Antistatic, che vi avevo segnalato non molto tempo fa. Il disco si configura alla fine come un esperimento che cerca di rendere suoni e ritmi di un disco industrial con la più tipica strumentazione rock; senza uso di elettroniche bensì con chitarre percussive e pulsanti, con basso e batteria che imitano una drum machine o persino dei timpani. Purtroppo non si può sentire il disco intero senza comprarlo, e l’anteprima su Bandcamp si limita alle prime quattro tracce, ancorché golose: Angels vs. Peasants è un lungo che lievita bene; Flag e Loading le abbiamo già apprezzate, e resta il brevissimo interludio Rivulet. Il tutto mi arriva come dell’ottimo rock capace di rinviare alla da me sempre amatissima Third Ear Band se non ho le traveggole, e persino alle recenti influenze ritmiche dell’Africa Occidentale. Come debutto non c’è male, proprio per niente.
Parliamo di un disco di colta fatto e finito con l’ensemble di soli fiati Carion, altresì detto Carion Wind Quintet, da Copenhagen: li scoprii, credo, per via algoritmica (!) alcuni anni fa, restando da un lato colpito dalle trascinanti esecuzioni del mio sempre amato Ligeti; dall’altro, meno positivamente, da un loro marchio di fabbrica, ovvero la tendenza a muoversi e interagire in modo coreografato durante le esibizioni. Ora, se mi pare più che interessante che gli strumentisti sperimentino con la possibilità di liberare un po’ il corpo rispetto a quanto impone l’orchestra classica — specie se si tratta di fiatisti —, una volta ripreso il tutto mi pare, francamente, troppo prono a scivolare nella pantomima e a distrarre. Su disco niente da dire comunque; e segnalo il nuovo disco, incentrato su due esecuzioni del celebre In C di Terry Riley, caposcuola del minimalismo: una famosa polemica con la post-tonalità mediante una serie di frammenti melodici componibili a piacimento dagli esecutori in modo da risultare in un brano sempre diverso ma sempre, come suggerisce il titolo, in Do maggiore. In mezzo un po’ di primo Novecento con Carl Nielsen e il suo Wind Quintet, contemporaneità massima col Ciclo di Miniature di Renāte Stivriņa, compositrice millennial dalla Latvia , un trasognato tradizionale danese (Drømte mig en drøm i nat, “Ho sognato un sogno”); e un po’ di Mozart trascritto che non guasta, col suo Divertimento N.1 in Mi bemolle maggiore. Tutto buono. Vi lascio al disco e al recentissimo video con l’esecuzione del primo movimento del Divertimento.
Sempre in campo colto, arriva a marzo l’Avalon String Quartet di Chicago per i tipi della Naxos, con un disco di esecuzioni dei quartetti d’archi di Florence Price e Leo Sowerby, nomi preminenti della scena, appunto, di Chicago degli anni '30 e '40; la Price in particolare è riconosciuta come la prima compositrice sinfonica afroamericana, il cui Quartetto per archi in La minore rimase ineseguito fin dopo la sua morte. Il disco conterrà anche il Quartetto in Sol minore di Sowerby, che con la Price intrattenne rapporti di reciproca stima. Lascio l’anteprima con un assaggio di un’esecuzione tesa e vibrante, alle mie orecchie paleolitiche molto adatta alla tensione richiesta da questo tipo di composizioni.
Passiamo in campo pop con un remaster in arrivo: quello di Paris dei Cure, disco dal vivo che fece seguito a Wish, a sua volta uscito di recente in edizione rimasterizzata (ve ne avevo parlato facendo un po’ di autobiografia). Come da tradizione la nuova edizione sarà espansa (immagino con brani dal concerto che all’epoca non ce la fecero); il gruppo ci lascia un’anteprima con l’esecuzione della non proprio eccezionale (ehm) Shake Dog Shake, uno di quei brani di un decennio prima con cui Robert Smith cercava di sputtanare il marchio in una lotta impari con l’onnivorismo del pubblico. Come testimonianza dello stato di forma del gruppo dal vivo fa il suo, eh, per carità.
Chiudo lasciandovi folkamente con un altro singolo di John Smith, questa volta molto sollevante e di gusto Eighties: The Living Kind, traccia eponima del nuovo disco che, ricordo, esce a metà marzo. Alla prossima!