Piffero Roundup #13: Milkweed; Angeline Morrison; Fabiano do Nascimento & Sam Gendel; Owen Spafford & Louis Campbell
Inoltre: Oren Ambarchi e soci; L'Arpeggiata; I Disinvolti; India Electric Co.
… E ancora vi ho fatti attendere. È un periodo intenso, in cui sto sistemando le mie abitudini di vita in generale e ho incrementato la voglia di fare; contestualmente, riguardo alla newsletter ha iniziato a pizzicare il mio senso di pifferaio: il quale, a differenza del senso di ragno, non mi avvisa di pericoli mortali, supercriminali e altri trascurabilissimi mali di questa sorta, ma della tendenza esiziale a fare della newsletter un lavoro. Sto postando più degli scorsi anni e coprendo sempre più cose, lo volevo e me ne compiaccio; ma la fretta di pubblicare e il desiderio di farlo in un giorno stabilito si sono frapposti alla costanza, al raccoglimento, alla serenità e alla franchezza che cerco e di cui voglio farvi dono. Nondimeno conto di organizzarmi in vista di una produzione più intensa, anche perché la primavera porta con sé uscite in quantità e nuove idee per me da provare sul campo. Cominciamo.
Un po’ di dischi mignon in questa tornata, EP o quasi-EP; sembra essere una tendenza crescente, almeno dall’angolazione parziale in cui guardo al mercato musicale. Cominciamo da una curiosità di una dozzina scarsa di minuti su musicassetta: si tratta di Folklore 1979, ultima uscita del misterioso collettivo britannico Milkweed, una formazione che non mette mai nome né faccia e pubblica episodietti su nastro (ma si trovano anche come file digitali) che partono da un testo passato esistente per metterlo in musica spezzettandolo in minutissimi episodi, che spaziano da un bluegrass scarnificato a un elettrofolk di gusto più isolano, distortissimo e con una voce apparentemente femminile e assai camuffata. Lo spunto in questo caso è un articolo apparso su un numero del 1979 di The Folklore Society, cui si aggiunge una registrazione dal titolo The Legend of the Pacing White Mustang, seconda traccia del lavoretto, in cui si parla dell’evoluzione del cavallo selvaggio nell’America settentrionale (!). Il processo stocastico con cui si arriva ai brani è davvero curioso e potenzialmente proficuo, il risultato è una pausa caffè improntata al più puro sconcerto, ma nondimeno fascinoso. Si può comprare su Bandcamp, ma qui vi lascio la riproduzione integrale in video.
Sono stato capace di non rendermi conto per oltre un mese di una nuova uscita della portentosa Angeline Morrison, latrice di sorrowful songs ed esponente del Regno Unito black che ci sta inebriando di delizioso dolore. Ho già raccontato nel '22 delle sue due ultime uscite, il sensazionale The Sorrow Songs e la precedente raccolta di episodi minimi The Brown Girl and Other Folk Songs. Stavolta abbiamo una nuova raccolta di minuzie, che a detta dell’artista sono state accolte positivamente dagli animali selvatici attorno alla sua casa e dovrebbero fare da assaggio a un disco più consistente, un concept a tema alchemico previsto per l’autunno (il quale aspetto trepidante, va senza dirlo). La raccolta casereccia si chiama Ophelia, dalla title-track che ritrae quell’Ofelia lì trasportata dal fiume. Rispetto al precedente analogo The Brown Girl riscontriamo più fiducia nei propri mezzi (a partire dal maggior numero di strati sovraincisi) e un clima più melanconico e disteso rispetto a quello, che invece era sovente angoscioso e desolato. Un cambio di tono che aspetto di veder sbocciare nel nuovo disco “grosso”, per adesso godiamoci questo.
Vi mancano le atmosfere di The Gloaming? Anche a me; e in caso contrario sbagliate, ma il tempo per ravvedersi è sempre dato. Ora possiamo apprezzare un analogo di quel connubio di virtuosismo e devozione trad in un duo londinese, il violinista Owen Spafford e il chitarrista Louis Campbell, il cui debutto You, Golden di due anni fa seppe sfuggire a quel discreto scassone che è il mio radar. Elogiati sperticatamente da esponenti del folkismo del calibro di Martin Hayes e Martin Simpson, i due tornano con questo 102 Metres East, una raccolta di tre lunghi molto inglesi per i tipi della Real World, dalle progressioni romanticone (aiutate da un approccio pianistico alla chitarra invero curioso) e dalle curiose quanto sorprendenti sterzate prog. Apprezzo la condensazione delle idee, con tre tracce buone e nessuno sbrodolamento (è di tendenza, io ve lo dico e ve lo ripeto), ancorché non vedo ancora i due presi in una direzione così netta e decisa da svelarne il potenziale, essendo le esecuzioni ancora devotissime ai loro padri spirituali — ma so’ ragazzi, c’è tutto il tempo. Bello comunque. Vi lascio anche tre video con esecuzioni in presa diretta dei pezzi.
Ancora con la Real World per un’uscita che avevo coperto all’annuncio e che poi mi è passata sotto il naso: parlo di The Room, frutto del sodalizio artistico tra i due jazzisti Fabiano do Nascimento e Sam Gendel, rispettivamente alla chitarra a sette corde (quella detta “da choro”) e al sax soprano e ambedue losangelini, sebbene il primo sia di origini brasiliane.
I due propongono un repertorio che copre buona parte dell’arco dei generi popolari sudamericani, con attenzione a quelli che sono formalmente entrati a far parte del jazz locale: a suo tempo Foi Boto, che troviamo in apertura, non mi aveva poi fatto impazzire, e senza conoscere i due (sul jazz non sono proprio ferrato, per usare un dolce eufemismo) sentivo una certa arietta di midcult. Tutto sommato mi sbagliavo, e il disco si rivela superiore alle mie, ammetto, tèpide aspettative: già il secondo brano, il Capricho, è di un dinamismo magistrale, a seguire un’Astral Flowers virtuosistica e di respiro internazionale, e poi si resta presi dentro, tra esecuzioni cristalline, affiatamento e respiro genuinamente popolare dei brani, un uso della chitarra completissimo e complesso e un sax tenore di gusto flautato, che oso accostare al barocco amazzonico come quello che ci propose l’ensemble Sfera AntiQva un po’ di anni fa (da un pezzo non lo sentivo, che disco formidabile!). Il risultato è un Latin jazz di gusto e sofisticatissimo nel senso migliore, con debiti sconfinamenti nella troppo trascurata musica colta locale che, dicevo, mi hanno riportato dolci ricordi di un’altra delle mie molte, e sempre melanconiche, vite. Mi hanno preso in contropiede, complimenti.
Coi dischi “intieri” abbiamo finito e diverse cose che avrei voluto coprire nella sezione singoli sono ormai imminenti o già uscite, quindi rinvio. Restando sul folk e i suoi derivati non posso esimermi dal segnalare la title track del terzo disco degli India Electric Co.: Pomegranate sorprende col suo intreccio di rythm’n’blues, folk e suggestioni latine, grazie all’uso del caxixi1, e mi incuriosisce più di quanto aveva fatto il pur ottimo singolo precedente After the Flood, struggente ma più formulare. Il video, come da tradizione, è realizzato rimontando un vecchio corto d’animazione. Il disco Pomegranate esce a maggio e ho ogni intenzione di coprirlo.
Spostandoci su territori latamente ambient, si annuncia il ritorno per fine aprile di Oren Ambarchi, il musicista di origini ebraico-irachene di stanza a Sydney, in consorzio con Johan Berthling e Andreas Werliin per dare un seguito al loro ottimo Ghosted del '22 (che non feci in tempo a coprire allora perché sapete com’è, andavo a tentoni peggio di adesso). Tre è un promettente brano da trip che annuncia, appunto, Ghosted II, sempre per l’etichetta Drag City. Attendiamo.
Chiudiamo con la colta! Scopro sempre nuovi ensemble, e stavolta tocca ai Disinvolti, formazione in massima parte italiana che si occupa di repertori barocchi della nostra terra (che è proprio la morte mia, ma tant’è, mi son sfuggiti. Troppa roba, troppa). Il nuovo disco, con la direzione di Massimo Lombardi che è anche il cantante tenore, si chiama Vulnerasti Cor Meum e si incentra su brani le cui parole sono tratte dal Cantico dei Cantici. Tutto appetitosissimo, e anticipato da questo O quam tu pulchra es, un mezzo mottetto mezzo madrigale dell’immenso Alessandro Grandi.
E per finire, o gaudio! Torna L’Arpeggiata di Christina Pluhar, a strettissimo giro dallo squisito Passacalle de la Follie con Philippe Jaroussky (ve lo avevo raccontato, entusiasta, a suo tempo). Il disco, di cui la Warner non ha reso nota la data d’uscita, si chiama Wonder Women e si incentra su compositrici barocche e coeve canzoni popolari da Italia e Sudamerica, sempre a tema figure femminili. Se il titolo mi pare di gusto francamente dubbio (nulla contro i fumetti in sé; ma visto il contesto, che razza di accostamento sarebbe?) nulla posso eccepire sulla resa di questo La Bruja, tradizionale messicano del genere son jarocho cantato da una Luciana Mancini (che aveva già collaborato con l’ensemble ai tempi del latineggiante e stupendo Los Pájaros Perdidos) dal debitamente vistoso costume di scena.
Direi che è tutto! alla prossima, penso con un altro riepilogo perché le uscite sono tante e succulente — o forse con una nuova rubrica extramusicale, secondo dove mi porta l’ispirazione. Quando sarà, come premettevo, non lo so e non lo voglio sapere; comunque presto.
Idiofono di origine africana che consiste in un cesto di vimini con dei semi essiccati dentro: pensate a uno shaker con parecchie più possibilità timbriche; ma insomma, lo sentite nel brano.