Piffero Roundup #19
Aronne Dell'Oro; Landless; Lemoncello; Mdou Moctar; e tanto altro prima della pausa estiva
Il riepilogo è tardivo ma anche abbondante, per allietarvi di più e per congedarmi meglio: infatti, per la metà centrale di agosto starò lontano dai computer, e di conseguenza dalla newsletter. Andiamo a incominciar.
John ‘Spud’ Murphy, l’uomo che ha sconvolto le produzioni musicali dublinesi, non sta mai fermo e urge parlare di un altro gruppo ancora della sua scuderia: le Landless, quartetto femminile & vocale dell’unica, vera e sola capitale morale di questo continente un po’ ammaccato ma sempre gremito di tesori, una formazione germinata dalla scena delle comunità canore (segnatamente la Secret Harp). Dopo l’omonimo EP di esordio e l’ottimo Bleaching Bones del '18 è il turno di questo nuovo, spettacolare Lúireach.
Il disco vede le voci delle quattro arricchite da piccoli, misuratissimi inserti strumentali (principalmente via organo portativo e shruti box, aerofono indiano affine allo harmonium e dedicato a generare note di bordone) al servizio di brani tradizionali tra i più consolidati, di provenienze e tempi diversi e qui consegnati a una dimensione senza tempo. È sorprendente la resa di brani che oserei considerare un po’ inflazionati come Blackwaterside; e tra i momenti da segnalare annoveriamo anche una Lúireach Bhríde estesa e commovente, un’angosciante The Fisherman’s Wife il cui piano ribattuto riprende lo spirito della versione leggendaria degli Steeleye Span (il sanguigno genio dei loro dischi classici sta ispirando nuove e grandi cose, come vedremo anche più sotto), una Death and the Lady ricca in armonici e ravvivata dai tocchi di organo, una tenebrosa The Hag con sentori di cembalo; ed è poi fantastica My Lagan Love, il sempreverde dalla melodia adorna, elusiva e difficile, qui in una versione austera e sollazzevole. Per chi ha il seppur minimo interesse per il folk vocale, un centro pieno.
Da non perdere il video immaginoso e vintage di The Fisherman’s Wife, che lascio qui sotto.
È tempo di groove quindi spostiamoci ad Agadez, in Niger, per il nuovo disco di Mdou Moctar. Il nostro è un artista di etnia Tuareg e asso dell’assouf, il blues del deserto, cantato in lingua Tamasheq. A consegnarlo alla fama internazione fu Afrique Victime nel '22 (e io a suo tempo lo mancai, ovviamente…), di cui questo Funeral for Justice (per i tipi della Matador Records) pare essere una sorta di seguito.
Il nostro, secondo l’espressione, “non le manda a dire” a partire da un contenuto fortemente politico dei testi, incentrati sul dramma post-coloniale del paese e della gente Tuareg (si vedano Oh France, tirata, polemicissima e dall’off beat incalzante; e la più che esplicita Modern Slaves) passando per una trasversalità e una consapevolezza musicale notevoli: si segnalano una title track in continua accelerazione; Imouhar, un blues su tempi medi (benché spezzati da un solo velocissimo) che fa un po’ da manifesto; Takoba e Imajighen più genuinamente sahariane. Feroce, pestato, urlato ancorché godereccio, l’ottimo disco si segnala anche per una deliziosa grafica settantiana. È al mondo post-coloniale che bisogna guardare, ve lo ripeto.
I salti non finiscono mai e si torna a Dublino, col primo disco “lungo” delle Lemoncello (ve ne avevo parlato, peraltro sbagliandomi clamorosamente sul titolo del disco — potrei modificare il vecchio post ma scelgo invece il ludibrio), duo poppeggiante composto da Laura Quirke (voce e chitarre) e Claire Kinsella (voce e violoncello, che immagino c’entri col nome ora che ci penso — sì, mi è balenato adesso, non ditemi niente per cortesia). I tipi son quelli della leggendaria Claddagh, e non mi resta che complementare le cose già dette: le ragazze sembrano aver sentito un po’ di cose che andavano nei Naughties, come Belle & Sebastian, Faun Fables o gli Espers, ma oso intrasentire ispirazioni più recenti come Lisa O’Neill. Per il resto abbiamo una produzione ricca e consapevole, testi molto incentrati sul quotidiano e sui tormenti della Gen Z (su tutte Dopamine, sulle scariche della medesima a mezzo social, stratificata e con voci sovraincise per un risultato sottilmente tetro; e le frustrazioni sentimentali di All The Good Men dai tocchi di banjo) e un uso delle voci gravi e pastose delle due molto variegato (si veda il declamato di Harsh Truths). Si segnalano altresì una Old Friend di dolce melanconia, forse il vero pezzo forte; e un’altra Lagan Love, stavolta più recitativa e con continuo di violoncello ad accompagnare una vera prova di forza vocale. Nel complesso si vede del gran talento, ancora da smussare e magari a cui dare una sferzata, ma che ci lascia per ora un’infilata di canzoni più che piacevoli. Oltre ai video che le due producono in gran copia, lascio un paio di esecuzioni dal vivo che testimoniano un affiatamento già ottimo. Siamo comunque, ribadisco, sul poppeggiante; sappiate tenerne conto.
Chiudiamo la sezione dei “lunghi” in Italia, precisamente a Levanto, con Tronu de marzu, nuovo disco di Aronne dell’Oro che segue di quattro anni le bellissime Oxyacantha Sessions, un EP di gusto trobadorico che omaggiava appunto il biancospino, la pianta che chiama la primavera.
Aronne propone un tributo ai brani tradizionali del Meridione d’Italia in chiave folk-blues, servendosi di uno stile chitarristico evidentemente debitore del grande Bert Jansch (un caposcuola sempre più palese man mano che i decenni passano), approfittando della natura di questi repertori, in origine formulari e cangianti non meno di quelli della Gran Bretagna o degli States, fatti di parole e melodie prone all’interpretazione personale e a collassare l’una nell’altra, e oggetto a suo tempo di indagine da parte di Alan Lomax, il gigante dell’etnomusicologia senza il quale non avremmo grandissima parte delle belle cose che amo proporvi. In questo disco Aronne però ama accostare brani simili — tre salentini, ovvero Rosa di to maneri, Quista è la strada e la title track — a composizioni napoletane di autore spesso noto e di forma consolidata, quali Canna austina e Lo marenaro. Completano il quadro due brani pensati per omaggiare più espressamente i Seventies, uno siciliano (Chista è la vuci mia, dal repertorio di Rosa Balistreri) e uno sardo (Drommi fiore meu, cantata a suo tempo da Maria Teresa Cau). L’operazione di “folk revival settantian-mediterraneo” è, una volta di più, sapientissima.
Eccoci ai brani singoli. Cominciamo con quel grosso di Fantastic Negrito, che mi fa prendere un bello spaghetto duettando con Sting per questa nuova Undefeated Eyes: ma sono io di fragile fede, ché il brano è un bel soul in cui Negrito tiene sempre la situazione sotto controllo, servendosi dell’ottima voce di Sting per farla correre in parallelo alla sua, imbrigliandola. Ben fatto. Di dischi che facciano seguito al deflagrande White Jesus, Black Problems nulla so.
Proseguiamo col virtuosismo degli ibernici The Haar, con una classica She Moves Through The Fair nella versione che ci avevano proposto nel disco Where Old Ghosts Meet. Continuo ad apprezzare molto la frontwoman Molly Donnery e continuo a non riuscire a scrollarmi un complessivo senso di affettazione da parte del pur dotatissimo gruppo, ma date un’orecchiata nondimeno.
Nuovo video lisergico (e a rischio per gli epilettici, occhio!) dei Bab L’ Bluz, questa volta con la debosciata IWAIWA FUNK. Vi avevo parlato in termini lusinghieri del loro Swaken di recente.
Siamo a Sheffield per una vera perla: il ritorno delle Rheingans Sisters! Il duo composto da Anna (che vende anche lavori a maglia, vedere per credere) e Rowan (già membro delle Lady Maisery e latrice da sola di un discone come The Lines We Draw Together) torna dopo quattro anni dal sensazionale Receiver, quarto disco a due e rappresentativo di una svolta, grazie al suo irresistibile sincretismo paneuropeo.
Stavolta le Rheingan alzano ulteriormente l’asticella, con un nuovo disco autoprodotto in collaborazione col compositore Adam Pietrykowski e che promette una sintesi tra materiale occitano, nordirlandese e norvegese con un approccio tra John Cale e la musica da camera — no, non capisco nemmeno io, ma sono curioso. Ad ogni modo abbiamo un assaggio col primo singolo Devils, e, be’! Si tratta di una pesante reinterpretazione del tradizionale noto come The Devil and the Farmer’s Wife o The Farmer’s Cursed Wife, ispirato alla versione datane da Frankie Armstrong a fine Settanta, con un twist per il quale la sfortunata moglie del fattore ammazza a scarpate i diavoli che vogliono ghermirla. Il brano si allinea alla moda drone, con una tensione montante all’inizio e mantenuta alta, rumorismo quanto basta, percussioni potenti e improvvise e un’intrigante poliritmia (non ho potuto fare a meno di sentirci qualcosa di certe prove degli Span storici, come The Weaver and the Factory Maid e la sua resa ritmica del meccanismo di un filatoio — come dicevo, si rifanno sentire). Pur sapendo bene della bravura delle due il brano è sorprendente, incalza, esalta, non molla, ed è bellissimo. Start Close In esce a fine settembre e diamine se lo coprirò.
Lo sperimentalissimo ensemble Holland Baroque (ve ne dissi qui e qui) torna con una composizione originale e parabarocca di Judith Steenbrink, titolare e primo violino della formazione. Un saltabeccamento tra epoche movimentato e curioso, con accumuli e rilasci di tensione piuttosto romantici anzichenò. Non so di che disco farà parte, per il momento.
Nuovo brano degli Altın Gün, la formazione turca che propone il suo psych anatolico da Amsterdam, e di cui vi dissi a proposito dei brani di congedo della cantante Merve Daşdemir. Questa nuova Gönül Dağı sembra voler marcare il nuovo corso del gruppo, con un brano meno funk e disco e più ballatona rock di altri cui ci hanno abituato. Stiamo a vedere.
Un po’ di pop senegalese con la bella voce e la non meno bella kora di Seckou Keita, del Casamance, nel Senegal meridionale. Ni Mala Beugué si distingue per un accompagnamento ritmico serrato e sofisticatissimo e per dei tocchi di kora virtuosistici e commoventi, al servizio di un brano forse un po’ lezioso per i palati medi di qui ma che mi ha preso benone.
Siamo in territorio bluegrass con un altro brano dei New Dangerfield, il nuovo supergruppo afroamericano di cui fa parte anche il grande Jake Blount, che torna qua sotto. Qui la parte del leone la fa però Kaia Kater, voce principale in questa Put No Walls Around Your Garden scritta da lei stessa insieme a Billy Keane. Il pezzo si inserisce nella tradizione delle canzoni di lavoratori, adattandola al contesto post-industriale e nuovamente sperequato di oggi, con un tocco folk classico e magistrale.
A margine, sono in contatto col PR della Free Dirt che mi ha scritto che il gruppo non ha in programma un disco per il momento, e vorrà solo rilasciare singole canzoni (mi sa di tendenza che prenderà piede nel futuro prossimo, e avrò da pensarci per impostare la newsletter, mmmh). Comunque, se ci saranno novità le verrò a sapere.
L’estate è sempre stagione di anticipazioni per le beltà autunnali, e così tocca anche al ritorno di Yasmin Williams, ancora giovanissimo asso della chitarra country di Alexandria, Virginia. In questa nuova Virga abbiamo un inedito uso dei synth e di voci prestate dai Darlingside di Boston, per un brano meditabondo, cullante e sospeso (come la virga appunto, il fenomeno meteorologico della pioggia che evapora prima di toccare il suolo). Il disco Acadia esce a ottobre per la Nonesuch e a quanto pare sarà fitto di collaborazioni e atmosfere idilliche che invitano a rallentare — e a giudicare da questo brano mi pare già superiore al bello, ma un po’ acerbo, Urban Driftwood del '21.
Il disco comprenderà anche Dawning, bel pezzo celticheggiante e variegato con la voce di Aoife O'Donovan che era uscito ormai quasi un anno fa (e che vi metto sotto). Ad ogni modo, sono curiosissimo.
Vi accennavo a Jake Blount, campione dell’afrofuturismo, a proposito dei New Dangerfield. Ebbene, il nostro ha in cantiere anche un disco a due con Mali Obomsawin, musicista (precisamente contrabbassista) della nazione Abenaki, nativa dell’attuale Quebec (e a margine, di una bellezza esotica che fa girare la testa). Questa prima My Way's Cloudy (con Joe Rainey, cantante di origini Ojibway) è uno spiritual d’epoca trasfigurato in una sorta di pow wow d’oggi, elettrificato e misterioso: un risultato interessantissimo che mi lascia in trepida attesa del disco symbiont, che non so quando uscirà. I tipi sono ovviamente quelli della Smithsonian Folkways, ormai un’etichetta fondamentale per il folkofilo curioso.
Per finire, non è esattamente una novità ma Rhiannon Giddens ha rilasciato sul Tubo un’esecuzione dal vivo, pirotecnica e furiosa, della sua You Lousiana Man, e quando Rhiannon appare io ve la metto su. Il brano ha un bel po’ di anni ma appare in versione di studio nell’ultimo You’re the One, di cui vi raccontai a suo tempo.
Bene, è tutto. Come detto all’inizio, la newsletter se la dorme un po’ per attraversare le ultime caldazze — l’idea, salvo cataclismi, è di tornare con un nuovo aggiornamento tra fine agosto e inizio settembre; magari con un’altra iterazione della rubrica Giochi del Piffero, la prima uscita della quale ha visto una ricezione, per i miei standard, incoraggiante. Buon lavoro a chi lavora, buone vacanze a chi vaca e alla prossima!