Piffero Roundup #30
Piers Faccini & Ballaké Sissoko; Jonathan Nangle & Crash Ensemble; Rhiannon Giddens & Justin Robinson; Mitsune; Tortoise; Poor Creature; The Owl Service
Piffero Roundup è la rubrica con cui tengo il passo delle musiche che ci interessano, raccontandovi un paio di dischi e qualche brano singolo di recente uscita.
Dopo un bel pezzo, finalmente ricomincio a presentare dischi — ed è bene che ci dia dentro, ché maggio è uno dei mesi preferiti per le uscite, in preparazione dell’esplosione dei tour prevista con la bella stagione. Non indugiamo oltre.
Cominciamo con uno dei dischi più chiacchierati nell’ambiente folkofilo in senso lato: da un lato Piers Faccini, cantautore anglo-italiano residente in Francia con oltre vent’anni di attività (quando ancora consigliavo dischi su Facebook, non mancai di segnalare il suo bel Shapes of the Fall del '21), che si distingue per un gusto distintamente franco-britannico nei pezzi unito all’interesse per i suoni e i modi dell’Africa occidentale e a una bella vocalità liquida in lingua inglese che mi rimanda un sacco a Nick Drake (sarò stronzo ma a tratti mi sembra proprio lui); dall’altro lato Ballaké Sissoko, virtuoso malese della kora, la straordinaria e versatilissima arpa a ponte tipica dell’etnia mandingo che ho avuto il piacere di farvi sentire in varie occasioni. I due uniscono le forze per questo Our Calling, una raccolta di canzoni per lo più originali al crocevia tra folk britannico, folk mediterraneo e tradizione mandingo pubblicata dai tipi della Nø Førmat! di Parigi.
Il tema di fondo è quello della migrazione in tutte le sue forme: da quella del seme portato dal vento a quella degli usignoli che attraversano l’Europa per svernare in Africa, fino a quella umana e a quello scambio culturale fluido e naturale come avviene quasi solo attraverso la musica, la cui astrattezza intrinseca la rende capace di valicare i confini come nient’altro. Il disco è suonato a due con una manciata di eccezioni — particolarmente ricca la splendida e melanconicamente British Mournful Moon, con Malik Ziad al guembri e Vincent Segal al violoncello; si segnala poi Badjé Tounkara che aggiunge cordofoni, segnatamente la ngoniba nel manifesto d’intenti di One Half of a Dream e lo ngoni nella blueseggiante Go Where Your Eyes — e riesce in un intarsio di sonorità malesi, modi familiarmente europei e respiro internazionale la cui naturalezza rasenta l’inspiegabile: i due riescono persino a inserire suggestioni celticheggianti qua e là, lambire un blues completamente consegnato al Mare Nostrum (la già citata Go Where Your Eyes, ma soprattutto North and South) e a infilare una Ninna Nanna tradizionale dal Sud Italia senza spezzare l’equilibrio dell’insieme. Se volete un saggio di cosa è davvero capace la musica folk, dateci una buona orecchiata appena potete.
Vi lascio al disco su Bandcamp e ai video con esecuzioni in presa diretta di Borne on the Wind, If Nothing Is Real e Mournful Moon.
Per il momento musica accademica, qualcosa di diverso dalle ultime volte: siamo in Irlanda e parliamo di repertorio contemporaneo, ovvero della collaborazione tra lo straordinario e prolificissimo (non so davvero come tener loro dietro, accidenti!) Crash Ensemble di Dublino e Jonathan Nangle, compositore locale che si sta distinguendo per i suoi esperimenti elettroacustici, che prevedono anche registrazioni sul campo di suoni naturali, installazioni sonore e improvvisazioni elettroniche.
Questo Blue Haze of Deep Time prende le mosse da registrazioni del mare fatte sul campo dal compositore durante le sue passeggiate: i sei movimenti si articolano in modo simile ai Quadri di un’esposizione di Mussorgsky, catturando diversi momenti in cui il mare si comporta in modo diverso (peraltro anche visibili in un’installazione montata alla National Concert Hall di Dublino). Ogni movimento inizia dalla registrazione e lascia poi spazio all’ensemble — per la prima volta al completo per una composizione di Nangle — e agli inserti elettronici per commentare le sensazioni suscitate dalle onde. Fascinoso e da ascoltare per intero in un’oretta di quiete.
Ve ne avevo detto in due riepiloghi precedenti (qui e qui), e ora ci siamo: è uscito What Did the Blackbird Say to the Crow, nuova collaborazione tra la Regina del Bluegrass e Non Solo Rhiannon Giddens e Justin Robinson, suo compare ai tempi dei Carolina Chocolate Drops (il quartetto che lanciò a suo tempo la stessa Rhiannon).
Come si diceva, il disco è una raccolta di brani a due per banjo e fiddle registrati all’aperto, fra le verzure nei pressi delle case di eroi del bluegrass della Carolina del Nord come Joe Thompson ed Etta Baker, oltre che presso la Mill Prong House & Preservation. Il duo ci dà il suo benvenuto sul porticato e infila una serie di brani brevi e veloci (ben 18!) che ricollegano loro e noi alle origini stesse di quell’esperienza straordinaria, e ormai di respiro internazionale, che ha nome di bluegrass. Dovendo fare esempi, abbiamo già coperto a suo tempo Hook and Line del Thompson e Marching Jaybird della Baker e segnaliamo in più la frizzante Pumpkin Pie (mmmh, che buona! Derelitti voi che non l’avete mai assaggiata) e le riconoscibilissime Country Waltz e John Henry, che vi risuoneranno di sicuro. Non mancano poi pezzi di repertorio comune e delle filastrocche (elemento essenziale nella definizione del filone), come Duck’s Eyeball e Little Brown Jug. Magistrale e consigliato a ogni appassionato di bluegrass casomai si fosse starato un po’ col tempo.
Tutto, o perlomeno molto, è stato filmato e sul canale YouTube di Rhiannon, al momento in cui scrivo, ci sono ben otto video con brani presi dal disco. Per non sformattarmi la newsletter mi fermo a tre, con Going to Raleigh, John Henry e una Rain Crow condita con nacchere. Oltre al disco intero su Bandcamp, naturalmente.
È passato molto tempo da quando vi dissi dei Mitsune, formazione berlinese con membri giapponesi, tedeschi, australiani e greci che raccontano il loro sradicamento con una proposta retta sullo shamisen giapponese inserito in un contesto ibridato. Il disco d’esordio Hazama mi aveva incuriosito per l’idea ma non del tutto convinto, proponendo un suono più che interessante ma (quasi) senza pezzi di qualità adeguata a sostenerlo, o almeno così mi è parso. I nostri comunque si sono riaffacciati con un’esibizione al KEXP, radio live di Seattle, in cui propongono la vecchia Roku-Go e altri tre brani che non avevo mai sentito e in cui scorgo finalmente un po’ di grinta. Stiamo a vedere.
Frugando tra i miei mixtape di fiducia accade che mi imbatta in un nuovo singolo dei Tortoise di Chicago. Dei campioni del post-rock o qualunque cosa fosse avevo acquistato e ascoltato a lungo con piacere i classici Millions Now Living Will Never Die e TNT, che li consacrarono nella seconda metà dei Novanta (ancorché io li avrei scoperti solo qualche anno dopo). Non ne ho saputo più nulla, sebbene immaginando che facessero ancora dischi (ma io nel mentre ero in altre faccende affaccendato), e scopro ora che non si facevano sentire dal '16 e che, come molti ultimamente, si sono dati alle riedizioni su vinile dei loro classici. Questo nuovo Oganesson è un interessante ibrido che mi arriva come una versione dub degli Steely Dan, se la cosa ha minimamente senso e non mi sono del tutto stordito, e non si discosta troppo dal TNT che ricordo. Si parla di un nuovo disco, non si sa quando e non si sa con che titolo, per i tipi della International Anthem e della Nonesuch Records — e magari troverò una nicchia per coprirlo in onore dei vecchi tempi, hai visto mai.
Altro giro, altro progetto in quel della fantastica scena di Dublino. Nel '22 Ruth Clinton delle Landless, il quartetto vocale di cui vi ho detto a proposito del loro ottimo Lúireach, e Cormac MacDiarmada degli ormai leggendari Lankum avevano formato un estemporaneo duo dal nome di Poor Creature. Il tempo passa, i gruppi originali pubblicano — e che pubblicano! — e si esibiscono, ora le acque sono più calme e i due riprendono l’idea di allora, facendosi terzetto con l’inclusione del batterista John Dermody. Sempre con la produzione di John ‘Spud’ Murphy abbiamo il primo singolo The Whole Town Knows, corredato dal misterioso video girato sempre da Cormac e Ruth nel corso di vari anni, in cui hanno raccolto riprese da vari luoghi dei dintorni di Sligo e del nord dell’isola.
Il pezzo in sé è un gran bel folk intrippante e trance, forte di strutture ricorsive, sonorità acidule e un potente & persistente commento batteristico da parte di John, il tutto in contrasto con una melodia apparentemente risollevante e in maggiore portata dalle voci. Il disco All Smiles Tonight promette di unire “quotidiano e fantastico”, il senso di perdita e il senso della storia, ed è atteso l’11 luglio per i tipi della River Lea. Attendo fiducioso.
Il piatto è ricco — anche per recuperare un po’ del tempo trascorso — e si chiude con un EP a opera di The Owl Service, il collettivo musicale originario di Leigh on Sea nell’Essex e capitanato da Steven Paul Collins. Ora il collettivo sembra consistere nel solo Collins che registra e suona da solo, o al massimo con sparutissime collaborazioni, un disco dopo l’altro; e in un modo che sto trovando francamente un tantino erratico — è di appena aprile la raccolta di bizzarrie elettroniche di Black Chapel Music, accompagnata pressoché in contemporanea da Acid Tracks, una sorta di collage di cover in omaggio ai gruppi storici del folk psichedelico, dai Caedmon agli Spyrogyra passando per i Dando Shaft (a margine, tutta ottima roba che vi dovrò mettere qui e lì nelle playlist).
Comunque, per una convergenza astrale sono preso da un certo disio di recupero dei Fairport Convention — un grande amore che è stato determinante nel fare di me un folkster, come avrò modo di raccontarvi meglio un giorno — quando Mr Collins se ne esce con queste due tracce di tributo a Sandy Denny, l’inimitabile voce storica dei Fairport nonché vera leggenda del folk revival, stroncata troppo presto dalla stessa smodata sensibilità che l’aveva resa tanto grande. Nelle note Collins racconta la sua commovente storia di metallaro convertitosi nel 1990 al folk — il che lo avrebbe portato a formare il suo progetto tanti anni dopo — ascoltando per caso un disco di vent’anni prima: l’omonimo dei Fotheringay, effimera formazione di una Sandy fresca dell’abbandono dei Fairport che avrebbe dovuto costituire un progetto collettivo (specie per la presenza del marito Trevor Lucas) ma fu ben presto schiacciata dalla statura di Colei, che non ci avrebbe messo molto a lanciare la carriera da solista che a quel punto le spettava di diritto (ma comunque, cosa c’è di più bello di sapere di un’anima sottratta al metal dal folk, dico io?1).
Insomma, dicevamo che Collins pubblica questo A Tribute to Sandy Denny di due tracce sole, a testimonianza di una delle più grandi influenze dell’Owl Service. Tutto è suonato da lui e cantato da tale Dorothy Chappell, il cui nome non mi fa risuonare alcun campanello ma che si dimostra un gran bel mezzosoprano, che sa come affrontare il materiale con una bella voce aulica e leggera, capace di rendere il fraseggio di Sandy senza cercare un’imitazione impossibile. La prima traccia è la splendida The Sea, scritta da Sandy e presa proprio da Fotheringay, in una versione piuttosto fedele ancorché segnata da pulsazioni più forti. Segue Here in Silence, brano non originale (viene dalla colonna sonora del film Pass of Arms e appare nella raccolta No More Sad Refrains), che mi prende del tutto in contropiede con una resa coldwave che trasla in avanti la melanconia dell’originale in un modo che trovo misteriosamente riuscito. Interessante.
Uff, il riepilogo mi è uscito bello corposo stavolta! Ma dopo il ponte, ci voleva. Vi aspetto presto con una playlist basata su questo materiale e con qualcosa in più, e in seguito con un monografico su un disco di cui sono molto ansioso di dirvi. Alla prossima!
Non moltissime cose ma ce ne sono diverse, dai, vi sto solo prendendo un po’ in giro.