Cole Stacey è sia un turnista versatile (famoso, credo, soprattutto per la collaborazione con Midge Ure) sia il 50% degli India Electric Co., ecletticissimo duo britannico composto appunto da lui e da Joseph O’Keefe, pioniere di un’accogliente proposta folk-pop con dentro tutto. Il duo si è consacrato con The Gap nel '20 e ha consolidato la fama l’anno scorso col gran bel Pomegranate, piacevolissimo e dolce frutto da suggere tutto, all’annuncio del quale avevo intrapreso uno scambio epistolare con Cole che mi avrebbe condotto a un’anteprima mondiale del tutto fortuita (chi altri può combinarne una così, se non il vostro pifferaio selvadego preferito?).
Cole comunque, sempre gentilissimo, mi scrive di nuovo alla fine dello scorso ottobre per farmi sapere dell’uscita di Quiet Is Louder, primo singolo del suo nuovo progetto solista. Io però ero sommerso da delle commesse lavorative tanto inaspettate quanto necessarie e avrei presto messo la newsletter sotto ghiaccio, finendo così a scriverne con atroce ritardo. Ma ora il disco è fra noi, io sto riprendendo il ritmo tra mille piccoli inciampi, e vediamo di recuperare.
Questo nuovo Postcards From Lost Places è quel che dice di essere: una collezione di cartoline da luoghi diversi e per lo più abbandonati dell’Inghilterra rurale o dell’industria estrattiva che fu — parafrasando un po’ l’annuncio, “dalla Clay Factory nel Devon fino a un insediamento preistorico nel Dartmoor fino a un villaggio minerario vittoriano” —, che nelle mani dell’artista assume la forma di canzoncine minute, episodi musicali concentrati e densi, a base di cordofoni, di incursioni percussive occasionali e della voce tenorile e chiara di Cole, a comporre un disco essenziale che si dipana in mezz’oretta scarsa (il futuro è in gran parte in mano a dischi brevi ed EP, sentite ammé). Il risultato è una versione più raccolta e condensata del songwriting proprio dell’azienda elettrica, privato di quella componente elettronica che aveva guadagnato preminenza in Pomegranate, e più tradizionalmente britannico, riflettendone il concept fortemente locale.
Si inizia, appunto, con Quiet Is Louder, ispirata a Morwellham Quay, ex distretto minerario di epoca vittoriana ai confini della Cornovaglia ora convertito in museo all’aperto (nonché luogo delle riprese del video). Il pezzo è una bella ballad raccolta con un’atmosfera da “fine delle danze”, che ci presenta le sonorità tipiche del disco, con uso subliminale di differenti cordofoni e un estensivo uso di bordoni eseguiti con diversi membri della famiglia delle mandole.
Segue Hard Times (Come Again No More), uscito come terzo singolo, che rielabora un tradizionale di metà Ottocento risalente alla guerra civile americana. In questo caso l’approccio di Cole è minimalista e speranzoso, asciugando il tutto in una stringata ballad per piano e voce registrata in una chiesetta. Proseguiamo col secondo singolo All We Are, incentrato sulla celebrazione della forza dell’amore sulla scorta dei versi di una poesia seicentesca di autore anonimo dal titolo di Love Will Find Out The Way. Contribuiscono al senso di baroque pop (ancorché diverso da quello sessantiano comunemente inteso, e più misurato) l’uso di un rarefatto organo Hammond per mano di Jack Cookson e la presenza massiccia della mandola tenore. La rassegna dei singoli si chiude con If It Helps (che non ho coperto in un Roundup, essendo l’uscita del disco ormai imminente a quel punto), che introduce il kanklės (un salterio di origine lituana, a occhio affine al kantele) di Emilija Karaliute, che assieme a una tromba e a una base percussiva costruisce un gioco di contrasti tra un brano decisamente vivace e un testo incentrato sull’impotenza di fronte al suicidio di una persona amata e all’impossibilità di impedirlo. For Old Time’s Sake, ancora con la Karaliute, mi arriva persino reminiscente dei Genesis del periodo supposto minore del “quartetto”, appena uscito Peter Gabriel1, col suo pop pizzicato, vagamente britteniano e di gran lustro.
Il disco comprende anche due episodi di poesia recitata: Lost Supper, lirica sull’inesorabilità del trapasso che arriva a questo punto; e in chiusura abbiamo Lost Prayer, parafrasi della Prayer di John Masefield con tenue accompagnamento strumentale in crescendo. A completare il quadro abbiamo Sugarcanes, bella ballata sull’impermanenza venata di melanconia; una Castles by the Sea curiosamente elettrica; la medievaleggiante e proghettara The Gatehouse sulla storia del fantasma di Mary Howard; e la vagamente gitana Feast of Fire, un ritmato episodio di danza col diavolo registrato a Brentor. Ultima canzone prima del recitativo finale è Songs of the Moor, dal groove impreziosito da un barattolo di cereali (i crediti dicono così, giuro) scosso per offrire un colore simile a quello del caxixi.
In complesso, sono le cartoline di un gran bel viaggio, Cole riconferma la sua classe una volta di più; e se vi piace il pop più acustico e sofisticato e avete bisogno di una bella dose di consolazione per la stagione morente e gli sbalzi d’umore che porta con sé, vi raccomando di non farvelo sfuggire. Vi lascio al disco su Bandcamp e ai video, che danno un’idea dei rispettivi luoghi d’ispirazione. Quanto a noi, vi aspetto alla prossima con un nuovo riepiloghetto!
E che è, ad oggi, la formazione che preferisco riprendere, per quel pochissimo che ancora riprendo i Genesis. Va così.