Piffero Roundup #17
L'Arpeggiata & Christina Pluhar; Buzz' Ayaz; Ana Lua Caiano; Sahra Halgan; Ian Lynch; Maria Mazzotta ed Ernesto Nobili
Eccoci. Per me è ufficialmente arrivata l’estate, nei termini di un aumento considerevole del tempo scevro da impegni, e nel mentre ho cambiato in positivo molte abitudini. Vedremo come va in termini newsletterari, ora andiamo a cominciar.
Iniziamo dall’Italia proseguendo la serie dei musicisti ampiamente in carriera di cui non sapevo proprio niente: stavolta si tratta di Maria Mazzotta, cantante formatasi a Lecce dalla bella voce ruvida e squillante e con un ragguardevole seguito internazionale, che ha pubblicato lo scorso inverno il nuovo Onde per i tipi della Zero Nove Nove. L’idea alla base è quella di una riproposizione post-rock e psych di canti di derivazione contadina. Siamo dalle parti di connubi tipici dei '70, e il richiamo a quei tempi alle mie orecchie è più che esplicito.
Bell’inizio con La fortuna, con un crescendo (grazie alle chitarre di Ernesto Nobili e alle percussioni di Cristiano della Monica, che sono ottime per tutto il disco) che richiama direttamente il montare di una tempesta di mare. Sorprendente la venatura rock della successiva Libro d’amore, e curiosissima la pizzica shoegaze di Sula nu puei stare con ospite Bombino, chitarrista esponente del desert blues (ci torniamo più avanti). Inevitabili alcuni momenti più lenti e dimessi (Damme la manu; Navigar non posso… senza di te), riferimenti espliciti alla pizzica (Pizzica de core (Malencunia)) e omaggi alle predecessori (Terra ca nun senti, storia di migrazioni risalente a Rosa Balistreri; Marinaresca dedicata a Roberto De Simone). Tutto è cantato in leccese eccetto Canto e sogno, in italiano, brano più chiaramente indie rock ed esplicitamente anni '90 con la tromba di Volker Goetze. Se per come ve l’ho messo a parole il connubio vi sembra improbabile… vi capisco, ma date un’orecchiata; facilmente sarete sorpresi. Un disco dai bei toni agrodolci e dall’ottima fattura.
Qualche puntata fa avevo comunicato la mia attesa per il nuovo disco de L’Arpeggiata di Christina Pluhar, a tema femminile. Nel mentre ha ampiamente fatto in tempo a uscire, Wonder Women è tra noi e continuo a trovare il titolo un ammiccamento fuori luogo e indigeribile, ma suppongo di dovermene fare una ragione.
L’ensemble è quello che ben conosciamo, aggiunto di quattro voci di registro alto: prevedibilmente tre donne — la soprano Céline Sheen e due interessantissimi mezzosoprani nelle italiche persone di Luciana Mancini e Benedetta Mazzucato — con in più, a sorpresa, un contralto maschile, il bravissimo Vincenzo Capezzuto (apprezzabile in La llorona e Jacara).
A dominare nel repertorio è senz’altro l’ambito latino, con canzoni del Nuovo Mondo (come il brano di anteprima, il popolare messicano La bruja, di cui avevo proposto un video che, ahimè, è stato rimosso e rimpiazzato dal solo audio; oltre alla già menzionata La llorona, bella e intensa), abbondanza di composizioni della grande Barbara Strozzi (splendida la canzone Che si può fare?, sebbene l’esecuzione di Marco Beasley con l’ensemble Costantinople nel loro fantastico La Porta d’Oriente resti irraggiungibile) e una sorpresa dal folk italiano con una commovente La canzone di Cecilia, in un’esecuzione consapevole e per niente snaturata da pericolosi accademismi. Notevole anche l’episodio secentesco Nive Puer di Isabella Leonarda, che sembra elaborare su una nenia. Completano il quadro pezzi di Maurizio Cazzati, Antonia Bembo, Francesca Caccini e Andrea Falconieri, per una proposta forse un po’ meno coesa del solito, ma sempre dell’altissimo livello che ci si deve aspettare dall’Arpeggiata e con un approccio al folk di cura sorprendente.
Terzo disco per un’altra artista femminile che non conoscevo: siamo stavolta in Somalia e si parla di Sahra Halgan di Hargeisa, al terzo disco con Hiddo Dhawr. La Halgan ha vissuto a lungo in Europa (soprattutto in Francia) come rifugiata sin dal 1992, dopo che già in patria si esibiva opponendosi agli interdetti locali; da qualche anno è tornata in patria e ha preso a incidere materiale. Il disco è, in sintesi, un gran pezzo di blues-rock desertico, venato di modi locali che attraversano ogni brano, ritmi serrati, un approccio alle chitarre graffiante e freschissimo e un senso di dramma e liberazione che attraversa il tutto. Si parte tiratissimi con l’ottima Sharaf e si resta incollati — tra i momenti notevoli devo segnalare il serratissimo brano in levare Somaliland Ani Adi, gli affascinanti tempi medi di Hiddo Dawr, la mesmerizzante Diiyohidii che mi fa pensare che la disco music potrebbe persino piacermi (fosse fatta così…), il blues dispari di Qaram Qalafe, e le variazioni improvvise della solare Lamahuran.
Nel complesso un gran disco, denso e divertente, che non posso che raccomandare a chi è interessato al panorama subsahariano ma anche solo a chi vuole un disco rock diverso dal solito e accoglie l’idea di essere davvero sorpreso. Per parte mia, sono anche solleticato nelle mie inclinazioni più reazionarie e controculturali: detestando il giovanilismo cieco, ottuso e barbiturico dell’occidente, l’idea di questa perentoria signora in abiti modesti che spazza via in scioltezza i lagnosi d’oggidì mi manda in visibilio. Ammirate il video di Sharaf e godete.
Si parla ancora di Lankum, ma indirettamente: si tratta di un nuovo disco solista di Ian Lynch, dopo il disco drone autoprodotto dell’anno scorso sotto il nome di One Leg One Eye (ve ne dissi qui). Per essere precisi è una colonna sonora originale, per il film All You Need Is Death del regista irlandese Paul Duane, di genere dichiaratamente cosmic folk horror. La produzione è dell’ormai inarrestabile John ‘Spud’ Murphy, già produttore degli stessi Lankum membro dei miei amatissimi ØXN.
Non posso che chiarire immediatamente che non ho visto il film né saprei come fare al momento (anzi sì, ma lo sapete, non sta bene). Posso commentare il disco in sé, con diversi episodietti sia strumentali che cantati col tipico uso di drone, pedali ed elettroniche proprio delle produzioni Spud, più dimesse e propriamente folk rispetto ai brani distesi, montanti e angoscianti degli ØXN; Lynch è udibile non solo nell’ampio uso di aerofoni e nell’approccio ruvido all’Irish trad, ma anche in concessioni al black metal, udibili specialmente verso la fine. Personalmente non sono un grande ascoltatore di colonne sonore, anzi — tendenzialmente, per me se una musica sa accompagnare bene un film non sa accompagnare altrettanto bene il salotto, ma forse ho solo una sensibilità molto alta al contesto di fruizione (mi riesce inconcepibile anche ascoltare qualunque cosa con le cuffiette per strada, per dire); posso dire che il disco a mio giudizio è altalenante nella misura in cui non vorrei il black metal tra i piedi, ma la curiosità di riscontrare il funzionamento di tutto ciò nel film, oltre che di vedere il film stesso, mi è venuta.
Passiamo ai singoli con l’ensemble Murmur Mori di cui vi ho detto diffusamente, ormai lanciatissimo. Il quartetto espandibile capeggiato da Mirko Volpe e Silvia Kuro, infatti, ha iniziato a collaborare strettamente col professore di musicologia Davide Daolmi — vi avevo raccontato, nel link appena sopra, del suo libro sui Carmina Burana — per ricostruire brani antichi dell’Italia settentrionale, un contesto cioè attiguo a quello dei Carmina, partendo dai manoscritti che li riportano con notazioni adiastematiche e semi-adiastematiche. Le registrazioni saranno ancora una volta in presa diretta, stavolta nella chiesa sconsacrata dei Santi Pietro e Paolo di Caraglio (Cuneo) e il disco è previsto per l’anno prossimo, ma abbiamo già una fascinosa O admirabile veneris idolum da sentire.
L’ensemble ha collaborato anche con l’Università degli Studi di Milano per musicare un corto d’animazione, ma per il momento non ne so altro.
Proseguiamo con un bel pezzo di psichedelia cipriota grazie alla quasi title track del debutto dei Buzz’ Ayaz, nuovo gruppo dell’irrequietissimo e prolificissimo Antonis Antoniou di Nicosia (già vi avevo fatto sentire l’ottima Zali). Il brano Buzzi Ayazi è una danza incalzante e cantilenata, con un graduale aumento di volumi e, infine, di velocità. Finalmente si sa anche di più dell’uscita del disco, prevista per agosto.
Per chiudere il riepilogo vi giro il nuovo video di Ana Lua Caiano da Lisbona, di cui avevo già elogiato il fascinoso electrofolk. Il brano Cansada è tratto naturalmente dall’ultimo disco Vou Ficar Neste Quadrado, e il video è nello stile dell’artista, di cui apprezzo sempre la creatività mista alla scarsezza di mezzi: un quadretto surreale che rilegge le vicende minutissime del brano, stavolta a inquadratura fissa sull’esterno di una casetta di campagna.
Con questo concludo e vi do appuntamento alla prossima! È un po’ che non lo facevo e vi invito a condividere e far girare, visto che oltretutto io, sui social, non ci sono praticamente più.