Eccoci con un altro disco che ho potuto sentire in anticipo grazie alla mia attività di PR! Stavolta è già uscito (ieri l’altro, proprio come Start Close In di cui vi ho detto l’ultima volta) e non si tratta quindi di un’anteprima, per la prosaica ragione che dapprima non ho trovato il tempo per finire di scrivere e poi, innescatosi il senso di dispetto, ho anche procrastinato quanto bastava. Ma ora ci siamo.
Di symbiont avevo detto negli ultimi due riepiloghi, in occasione dei singoli My Way’s Cloudy e Old Indian Hymn, ma una volta di più ci ripetiamo. Il disco è frutto di una collaborazione a due: da una parte Jake Blount, il campione dell’afrofuturismo, che ha traghettato il bluegrass presso il gusto Millennial fondendolo col gospel e l’intero spettro della musica afroamericana verso nuovi orizzonti formali che esprimano una nuova coscienza egualitaria e ambientalista — sia da solo, con dischi del calibro di The New Faith, sia col neonato supergruppo New Dangerfield. Dall’altra parte Mali Obomsawin, contrabbassista e cantante di origini native americane della nazione Abenaki, nell’attuale Quebec, e ora di stanza a Portland, che ha suonato proprio in The New Faith e ha già fatto parecchie cose — prima col terzetto Lula Wiles, ormai sciolto, e poi da sola con Sweet Tooth di due anni fa, che esplorava l’intersezione tra i generi codificati americani e le sue radici native; per non dire dell’intenso lavoro come turnista e del disco in collaborazione con Magdalena Abrego di inizio anno (Greatest Hits, che non ho coperto ma che segnalo ora approfittando del momento).
La collaborazione, sotto l’egida dell’ormai fondamentale Smithsonian Folkways, risulta in un concept album che si sforza di collassare il passato della musica americana nel suo presente attraverso una sorta di trama collocata nel futuro — sulla nuova ondata “simbiotica” che emerge nel mondo segnato dal surriscaldamento e dalle ingiustizie razziali a correggere quanto è andato storto; una sorta di seguito spirituale dello stesso The New Faith, volendo —, trama veicolata attraverso una collezione di remix intesi come operazioni riconciliatrici. Sintetizzatori e composizione contemporanea corteggiano e assorbono il materiale tradizionale, creando una sorta di mitografia per il futuro, capace di traghettare dei materiali dimenticati e di condurli a un futuro in cui possano sempre rigenerarsi. Intento perlomeno ambizioso, e senz’altro urgente artisticamente — il passo successivo del già avviato discorso dell’afrofuturismo, che ora abbraccia anche il folk dei nativi.
Abbiamo così una collezione di brani delle origini e dei generi più disparati gremita di ospiti e trattata con synth, drone, strumentazione elettrica e acustica impiegata promiscuamente, sample e campionature, con la venuta dei simbionti annunciata da finte trasmissioni radio e monologhi — dapprima nel preludio, poi al centro con The Green Road, declamazione di Blount sul tema del tradizionale Deep River; tracce che dividono idealmente il disco in due atti.
È del primo atto il singolo My Way's Cloudy (con Joe Rainey, cantante di origini Ojibway), uno spiritual d’epoca raccolto per iscritto presso lo Hampton Institute e trasfigurato in una danza attorno al fuoco. Appaiono anche i sintetizzatori controllati da piante — e giuro, non ho capito come —, in questo caso un’aloe. È tratto dal secondo atto, addirittura in chiusura del disco, il secondo singolo Old Indian Hymn, tratto dal libello Indian Melodies by Thomas Commuck, forse il primo libro mai pubblicato a contenere la musica di un compositore nativo americano, e si tratterebbe di un inno antichissimo la cui melodia sarebbe già entrata in uso durante delle funzioni di chiesa. Qui diventa un brano suggestivo e corale, fitto di intrecci percussivi e con inserti vocali a opera dei Windborne; il synth stavolta è controllato dall’assenzio. Un brano che in altre mani sconfinerebbe in quelle pacchiane rivisitazioni di presunte danze native che tanto afflissero gli anni '90, qui è invece pregno di un delicato fascino.
Il terzo singolo è poi la spettacolare Live Humble, ancora una melodia dal libro di Commuck fusa con un gospel, che incalza con la voce di Mali che cammina su un filo rosso tra due tronconi che non pareva possibile riunire. What’s You Gonna Do When the World’s on Fire è un blues di Lead Belly e Anne Graham che qui si fa veicolo di una strana inquietudine. Su una falsariga simile, ma più africaneggiante, è No Hiding Place con Sidy Maïga, tratto con altri dal repertorio delle Georgia Sea Island Singers di un buon secolo fa. È in lingua ulali l’inno Mother, sapientemente accompagnato al continuo di Mali e a un solo di fiddle di Jake. Fascinosissime sono poi le armonie vocali di Stars Begin to Fall, canzone di schiavi con sentori di Koromanti, brano proveniente dalla Jamaica del Seicento, e accompagnata dal corno dissonante di Taylor Ho Bynum. Rimane da menzionare lo struggente canto funebre di In the Garden, dedicato alla nonna di Jake e insaporito dalla chitarra elettrica; e il sobbollente spiritual a due di Come Down Ancients, accompagnato da banjo, contrabbasso e un drone dall’effetto ventoso. Il risultato finale è quello di un disco potente, espressivo, gremito di piccole sorprese come frutti da spiccare frugando tra le fronde, sorprendente soprattutto nei campi armonico, ritmico e timbrico. Tanta roba, e una testimonianza tra le più fulgide dell’anno di quanto è vivo e guizzante il folk in questi interessanti anni '20.
Vi lascio al disco su Bandcamp, ormai disponibile per intero, e al video di My Way’s Cloudy diretto da Lokotah Sanborn, accompagnato dagli altri due singoli su YouTube. Vi aspetto alla prossima in cui quasi sicuramente riprenderò la serie dei riepiloghi, che aspetta ormai da parecchio di proseguire. Riuscirò a stare dietro al mio proposito di fare uscite settimanali a dispetto dei miei incrementati impegni? Demandiamolo a un futuro, si spera, piacevolmente remixato per me come per voi.