Piffero Roundup #12: The Dead South; Miguel Girão; Katherine Priddy
Inoltre: Bab L'Bluz; Cinder Well; Josienne Clarke e una legge di natura in nota
Eccoci. Mi sono fatto di nuovo attendere stavolta, come ai vecchi tempi. Ho perso in parte la corrente che seguivo ormai da un pezzo, anche perché non ho avuto tempo a disposizione negli ultimi due fine settimana — che sono cruciali; chi vive solo come me mi può capire. Tutto ciò mi ha indotto a riflettere e a optare per un singolo post a settimana, a prescindere che sia riepilogo, presentazione singola o altro: per fruire di quello che propongo serve tempo, e non sono certo l’unico là fuori a reclamare la vostra attenzione (né il più importante, se tutto va per il bene); dovendo restringere un po’ baderò anche di creare dei riepiloghi più densi e con meno ridondanze. Fine dei propositi; partiamo coi link alle due uscite precedenti e proseguiamo.
Cominciamo la sezione dei “dischi in breve” con un dischino da Miguel Girão, chitarrista lusitano (che insegna lo strumento, anche) adottato da Glasgow e studioso di repertori locali. Il suo ultimo disco non è esattamente un EP sebbene la durata sia quella, ma è proprio quel che suggerisce il titolo: The Northern Isles Suite è la registrazione di una suite in quattro movimenti per chitarra sola, di gusto contemporaneo a partire da frammenti melodici tratti dalla tradizione caledone. L’operazione è stata finanziata in parte attraverso un crowdfunding, in parte col contributo di una fondazione intitolata a Martyn Bennett, pioniere della moderna Celtic fusion. Il risultato è un pezzo di bravura per chitarra acustica, in massima parte suonata a plettro — si ode distintamente la formazione accademica dell’autore, lontano dallo stile a dita, più morbido e popolare, di un Bert Jansch, in favore di un ibrido che richiama comunque, sovente, la chitarra classica, pur approfittando della minore rigidità dell’acustica. L’opera risulta tesa più a preservare il repertorio melodico cristallizzandolo in forme accademiche — peraltro talvolta con una percussività che è propriamente iberica — che a fare, propriamente, del folk; l’insieme è molto interessante e piacevole, ma mi pare più consigliabile a un appassionato di contemporanea non troppo disdegnoso che a un folkofilo in senso stretto. Strana operazione, da tenere d’occhio.
Si parlava di chitarra a dita, e non si può non segnalare il nuovo, e da me già annunciatissimo, disco di Katherine Priddy, la lanciatissima stella del folk di Birmingham — che forse conoscete a prescindere da me, visto che il suo successo commerciale, almeno localmente, inizia a essere notevole. The Pendulum Swing fa seguito all’EP Wolf, che la fece notare a sir Richard Thompson (il quale la volle poi come spalla per alcuni concerti, di fatto lanciandola) e al debutto lungo The Eternal Rocks Beneath di cui vi avevo detto a suo tempo. Stavolta siamo dalle parti del concept album, in tema di nostalgia, memorie, parenti lontani (Father of Two, dedicata al fratello diventato padre di famiglia in Australia), con profusione di campionature ambientali ad arricchire i consueti arrangiamenti sontuosi & ariosi coditi di abbondanti sviolinate (che trovo completamente positive, sia chiaro che dei violini sparati mi fo vessillo). Il risultato è un disco innanzitutto piacevolissimo e che, rispetto al precedente, è pensato più per la fruizione come album, teso a creare un’atmosfera per tutta la sua riproduzione, e in cui gli episodi che riescono in un primo impatto notevole sono più che altro i singoli — il pezzo forte First House on the Left sulla vecchia casa d’infanzia e le molte storie che vi sono passate, e il Western colmo di rimpianto di Does She Hold You Like I Did?; ma anche l’ottima apertura di Selah è di queste parti —; il resto è sempre affascinante, ma in media più subliminale; ne resto sempre catturato per poi non ricordare come faceva, sicché urge risentirlo. Sempre ottima la voce di contralto, molto classica ma comunque tra le migliori della scena; e ancora più matura la scrittura, con un talento thompsoniano per delle linee melodiche estese e adorne dal sostegno chitarristico sofisticato. Se avete voglia di un bel folkettone cantautorale e grassoccio, non sono in molti a farlo meglio di lei oggi.
Chiudiamo coi dischi spostandoci a Regina, nel Saskatchewan, patria del quartetto bluegrassaro The Dead South, di cui è uscito finalmente il nuovo Chains & Stakes. Vi avevo già detto di loro in occasione del precedente Easy Listening for Jerks, un dittico di EP a base di cover illustri che portava tanti buoni esempi della Regola d’Oro del Bluegrass1; qui invece siamo di fronte a un disco di inediti, dalle non del tutto consuete tinte dark e sanguinolente. Il disco si compone di molti episodi minuti (ben 13 tracce per non raggiungere neppure i canonici 40 minuti), con idee musicali immediate e subito efficaci, a mio avviso buone soprattutto nella parte centrale (con le dure Son of Ambrose e Completely, Sweetly inframmezzate dalla melanconia doom folk di Clemency), ma tutto l’insieme è tipico dei Dead South, un viaggio variegato come un giro al luna park iperconcentrato. Vi lascio anche ai video dei due singoli, la rapida A Little Devil e il corto quasi-grunge di Yours to Keep.
Veniamo ora a qualche brano singolo notevole, e non posso che cominciare dal ritorno dei Bab L’Bluz! Il quartetto franco-marocchino capeggiato dalla perentoria e deliziosa Yousra Mansour torna dopo l’esplosivo Nayda! del '20, manifesto un po’ acerbo e ridondante, ma dirompente e spassoso, della rivoluzione da fare godendo, a colpi di un suono antico e sparato verso il futuro come una cannonata. Per adesso solo un nuovo brano, promettentissimo: Imazighen parla di unità nelle differenze a proposito dei diversi gruppi linguistici del Marocco (il pezzo è cantato in lingua Darija, come sempre), parte ondeggiante e un po’ erratico per poi esplodere in uno sconcertante hardcore punk desertico, forte di una sezione ritmica sempre formidabile. Sawara esce a maggio per i tipi della Real World e conto che saprà illuminare la mia primavera.
Altra uscita a maggio, ma dalla Caledonia, da parte della prolificissima Josienne Clarke. Il disco, Parenthesis I, mi sembra voler essere una lunga appendice del precedente Onliness (songs of solitude & singularity) dell’anno scorso. Il freschissimo singolo Most of All ha il sentore di una demo, un pezzo scarno, di autobiografismo meditabondo e dai sentori vagamente francesi, se non ho le traveggole.
Chiudo questo riepilogo con una chicca, da parte da una delle dame cui mi sono consacrato: Amelia Baker, braccio e mente dell’operazione Cinder Well, che pochi giorni fa è apparsa in uno degli ormai leggendari Tiny Desk Concert della NPR. Ve la lascio da godere e vi rinvio a quando narrai del suo ultimo disco, il bellissimo Cadence. Alla prossima, spero tra una settimana circa, e — immagino — con una scheda singola.
La legge, da me scovata e formulata in vari modi, secondo la quale i pezzi pop e rock svelano il proprio pieno potenziale se e solo se vengono rifatti da un gruppo bluegrass. Gli esempi sono così patenti e numerosi che non perdo tempo ad argomentare, è una legge empirica evidentissima. Parliamo di come gli Iron Horse riescono a far rivalutare l’omonimo dei Metallica? Kid A ha o non ha tutto un altro sapore quando ci rimettono mano i Punch Brothers? Non possiamo non dirci folkettari.
con gli anni sono arrivato alla conclusione che il bluegrass è il mio genere preferito, quindi non vedo l'ora di ascoltare l'ultimo album dei Dead South. Chissà perché spotify non mi ha segnalato l'uscita (ma continua a segnalarmi la playlist di sanremo...)