Piffero Roundup #27
Murmur Mori; Mdou Moctar; Varo & John Francis Flynn; Rhiannon Giddens & Justin Robinson; Milkweed; Lorraine Nash; Bab L’Bluz
Piffero Roundup è la rubrica con cui tengo il passo delle musiche che ci interessano, raccontandovi un paio di dischi e qualche brano singolo di recente uscita.
È ormai lanciatissimo il Murmur Mori, l’ensemble vigezzino capeggiato da Mirko Volpe e Silvia Kuro specializzato in musica antica ricostruita, in ispecie medievale e trobadorica, proposta in dischi registrati in presa diretta da luoghi d’epoca; e di cui avevo intessuto dettagliati elogi a proposito del loro Canzoneta, va! di un annetto e mezzo fa. È dell’autunno scorso — e io arrivo in ritardissimo per i motivi già noti, dei quali mi scuso ancora — questo nuovo Make love, not crusades, che raccoglie materiale sul tema delle pene di chi attende il ritorno dei propri cari dalle Crociate, dei veri e propri antesignani del “Fate l’amore, non fate la guerra”, e un punto di vista d’epoca ancora poco o niente esplorato — con attenzione particolare all’Italia delle repubbliche marinare, che nelle Crociate misero uomini e danaro in quantità.
Il materiale comprende un Lamento della sposa padovana, recitato da Silvia su accompagnamento, sullo strazio di una dama non meglio identificata che si angustia per la sua casa vuota. A la fontana del vergier, cantata da Mirko, vede il trovatore Marcabruno alle prese con una dama piangente presso una fontana che maledice Re Luigi VII, promotore della seconda cruciata, che le ha portato via l’amato. Non mancano testimonianze dello strazio dei partenti, per esempio in Ja nuns hons pris, parte del bellissimo repertorio attribuito a Riccardo Cuor di Leone.
Tra le altre perle si segnalano una nuova esecuzione di Già mai non mi conforto di Rinaldo d’Aquino (c’era già nel disco precedente), il vivace strumentale Seigneur sachiez qui or ne sen ira di Thibaut de Champagne e l’incalzante Li departirs de la douce contree di Chardon de Croiselles.
Il disco è sempre squisito e testimone della capacità dell’ensemble di proporre un Medioevo meno noto e interessantissimo, piacevole veicolo a una controcultura e a una reazione più che sacrosante (il vostro pifferaio è fatto così, e ve l’ha sempre detto!). Vi lascio al disco su Bandcamp e ai bei montaggi proposti su YouTube.
Riepilogo all’insegna dei ritorni di fresco con Tears of Injustice di Mdou Moctar, il maestro dell’assouf (il blues del deserto) di origine Tuareg e di stanza ad Agadez. Vi dissi a suo tempo di Funeral for Justice, pestatissimo disco di protesta anticoloniale che la critica mondiale sembra avere accolto con grande favore. Questo Tears of Injustice, uscito a inizio anno, ne è tanto un seguito quanto un ribaltamento, proponendo delle versioni acustiche (denominate “injustice versions”) dei brani del disco precedente, espressamente tese a cambiarne il colore, dalla rabbia all’afflizione.
L’occasione viene da fatti incresciosi occorsi all’artista e al suo gruppo: nell’estate '23 Moctar era impegnato in un tour statunitense proprio mentre la giunta militare in Niger arrestava il presidente Mohamed Bazoum. La chiusura dei confini conseguente all’arresto rese impossibile ai tre membri Ahmoudou Madassane, Souleymane Ibrahim tornare alle proprie famiglie. Così nacque questo disco, registrato appunto in USA, persino in anticipo sull’uscita dell’originale. La realizzazione del disco, come spesso avviene oggi, è avvenuta con una registrazione in presa diretta, con l’intero gruppo nella stessa stanza, e registrato in simultanea nel giro di un paio di giorni.
Il risultato è giocoforza ruvidissimo e straordinariamente blues, testimone della musicalità straordinaria del gruppo e della duttilità dei brani e dei riff proposti. Se molti brani risultano simili in durata agli originali, la nuova Imouhar è invece grandemente dilatata, su tempi medi e dolorosissima; laddove la protestataria Oh France è persino accorciata, trasformata in un conciso lamento corale. Piuttosto simile invece Takoba, sebbene abbandoni i toni sussurrati originali per mettere lo scambio di voci in primo piano. Da non perdere. Ve lo lascio via Spotify (su Bandcamp va comprato) insieme ai video, con testi tradotti e riprese desertiche.
Passiamo ai brani singoli spostandoci a Dublino, ancora con le Varo e il loro disco di collaborazioni The World That I Knew. Il secondo singolo, dopo la straordinaria Red Robin, si era già sentito nei video di presentazione di ormai qualche anno fa, ma ora è finalmente udibile nella versione finita: Green Grows the Laurel vede il duo insieme a Sua Eminenza John Francis Flynn, alfiere di un folk ruvidamente avanguardista (ben vi dissi del suo ultimo, bellissimo Look Over the Wall, See the Sky) unire la sua voce baritonale e in carta vetrata a quello delle ragazze per un impasto interessantissimo, accompagnato da harmonium, fiddle, tocchi pianistici aggiunti da John “Spud” Murphy e, in apertura e chiusura, il curioso doppio whistle di Flynn, che non consiste in altro che in due tin whistle uniti con lo scotch. La resa della straordinaria melodia di questo tradizionale è entusiasmante, e mantiene la mia trepida attesa del disco intero a maggio.
Vi lascio al video e vi segnalo che avevo già messo il brano nella prima Piffero Playlist, casomai ve la foste persa (male, male…).
Vi dicevo due riepiloghi fa di What Did the Blackbird Say, il disco in uscita di Rhiannon Giddens & Justin Robinson per i tipi della Nonesuch a base di bluegrass all’osso e all’aperto. Il nuovo singolo è Marching Jaybird, delizioso power duo dal repertorio di Etta Baker accompagnato dagli uccelletti.
Tornano anche quei pazzerelloni dei Milkweed, il misterioso collettivo britannico specializzato in una proposta mezza bluegrass e mezza elettrofolk venduta su musicassetta — ve ne dissi già a proposito dell’EP Folklore 1979. Il nuovo, curiosissimo brano Exile of the Sons of Uisliu attinge all’epica irlandese del Táin Bó Cúailnge e farà parte di Remscéla, concept album sul tema in uscita a maggio per i tipi di The state51 Conspiracy. Sono di nuovo preso da un sospeso intrigo sentendo dell’esilio dei figli di Uisliu su sottofondo di banjo e drum machine, e non posso credere di avere appena scritto una cosa del genere. Attendiamo sviluppi.
Sempre a proposito di Eriu, da County Kerry arriva il nuovo pezzo di Lorraine Nash, giovane promessa del folk dalla bella voce pastosa e di contralto (ottimo!), dal fiddle fantasioso e dallo stile compositivo devoto al trad più futuribile. Essendo io nulla più che un somaro ragliante non seppi occuparmi dovutamente del suo lungo di debutto All That I Can Be del '23, che è stato ripubblicato di fresco in edizione deluxe, estesa con diversi brani pubblicati singolarmente nel mentre.
L’ultimo della serie è questo Carraig Aonair, primo arrangiamento su materiale altrui di Lorraine: l’originale risale al 1690 e alla penna di Conchubhar Ó’ Laoghaire, che esprime il suo sconforto per il figlio annegato in mare. L’uso del fiddle in diverse tecniche per delineare un paesaggio di dolore è straordinario. Vi lascio al bel video girato fra le scogliere del Kerry e al disco su Bandcamp, che non guasta di certo. Ti seguirò più attentamente d’ora in poi, Lorraine, promesso.
Concludiamo il viaggio a Marrakesh coi Bab L’Bluz, campioni dello psych-blues nordafricano nel segno del movimento nayda di cui vi dissi ampiamente in occasione del loro secondo disco, l’ottimo Swaken. Esce un nuovo singolo preso da lì, il blues-rock settantiano su tempi medi Bangoro, per l’occasione anche in una versione remixata da Gitkin, alfiere del cowboy funk di stanza a Brooklyn che ammorbidisce l’originale a colpi di riverbero e dandogli un tocco sorprendentemente latino, reminiscente della cumbia. Vi lascio ai due video delle due versioni.
Il riepilogo, direi, è stato ottimo e abbondante. Vi aspetto presto con la nuova playlist — la precedente pare sia stata ben accolta e ricevuta, perciò insisto — e vi auguro un buon fine settimana. Alla prossima!