Piffero Roundup #21
Buzz' Ayaz; Concerto Scirocco & Giulia Genini; Kate Griffin & Matchume Zango; Marry Waterson & Adrian Crowley; e tanto altro
Dovevo già riepilogare da parecchio; il risultato è un aggiornamento bello corposo, come quello pre-agostano. Nel breve e medio termine dovrò riorganizzare la stesura della newsletter per sposarla a un periodo di aumentati impegni — auguratemi buona fortuna e cominciamo senz’altro indugio.
Ve ne dicevo da mesi ed è uscito già da un po’ l’omonimo disco di debutto dei Buzz’ Ayaz, la nuova formazione di Nicosia creata da Antonis Antoniou, l’irrequietissima mente dei campioni della psichedelia cipriota che hanno nome di Monsieur Doumani e Trio Tekke. L’idea è quella di una psichedelia mediorientale, tanto ellenica quanto anatolica, cantata in greco e di ampio respiro, caratterizzata da fuzz diffusissimi, dub a profusione, e tanta acidità settantiana assicurati da organo, un assai caratteristico uso del clarinetto basso del britannico Will Scott ad arricchire il groove (con un esplicito omaggio, a detta di Antonis, ai Morphine) e ritmi tradizionali. La miscela rappresenta una sorta di riunificazione ideale della martoriata capitale di Cipro, col gruppo che si avvale di membri da ambo i lati della frontiera che da tanti anni la spacca in due. Il gruppo ha trovato un affiatamento estemporaneo attraverso molte improvvisazioni e passando alla prova dell’esibizione dal vivo assai prima delle sessioni di registrazione, avvenute con un processo rapidissimo, quasi del tutto in presa diretta (ah, ve l’avevo detto che la tendenza oggi è di fare i dischi così? Ma certo).
Avevo già presentato diversi singoli e il disco si dimostra all’altezza delle aspettative; con un esito viscerale, panico, pesante eppur festaiolo; per un’atmosfera di folk urbano, notturno e in trance. Non si possono che apprezzare le accelerazioni improvvise e la tzoura distorta della quasi-title track Buzzi Ayazi, il basso incalzate e amabile di Fysa, le pulsazioni elleno-dub di Arkos, le sinuosità acide di Ate Pale e la lenta e inesorabile Meres. Assicuratevi di creare spazio in salotto e sparatelo forte.
Un disco gioioso e divertente questo Tchopo (nonché prettamente estivo, ma arrivo tardi) di Kate Griffin, banjoista dei virtuosistici Mishra, e Matchume Zango, polistrumentista del Mozambico. L’estesa e colorata Milholo fa da manifesto e apre a una breve rassegna di brani di un folk morbido, pulitissimo e fulmineo, impreziosito dai begli intrecci vocali dei due. Particolarmente vicine al mio gusto sono la curiosità If We Listen, dalla progressione molto British, la rutilante Tchopo e la chiusura dai sentori brasileri di Open Your Eyes. Una miscela piacevole e, a mio giudizio, più brillante dei più indianeggianti Mishra, che a mio avviso peccano di freddezza e non funzionano ancora come potrebbero.
Nell’ecumene folkeggiante si tratta sempre un po’ come un evento quando si riaffaccia sulle scene un membro della dinastia dei Waterson. Stavolta tocca a Marry Waterson, figlia della leggendaria Lal (che ha preso il cognome della madre per ragioni d’arte) con un disco in collaborazione col cantautore iberno-maltese Adrian Crowley, dopo quella con David A Jacock (in Death Had Quicker Wings Than Love, del '17).
Celebratissimo dalla critica britannica, Cuckoo Storm è il disco frutto di questo nuovo sodalizio. L’intreccio della voce di mezzosoprano relativamente leggero di Marry e il baritono di Adrian, alle mie orecchie memore di un Gavin Friday, si svolge nel contesto di canzoni tenui, melanconiche, tese alla veicolazione di un umore, di uno scampolo, in un contesto fascinoso e solo vagamente lisergico, assicurato da chitarre echeggianti, ottoni e tappeti di synth. L’iniziale Undear Sphere è un folk watersoniano struggente, latore di atmosfere che ritroveremo più avanti negli arpeggi di Kicking Up the Dust; più perentoria e dal sapore di leggenda Leviathan, con piano e batteria incalzante ad accompagnare Marry in atmosfere ottantiane. Iconica Watching the Starlings, col mormorio di Adrian che anticipa un’esplosione di trombe. Per il resto si segnalano il wall of sound dal lento incedere di Lovers in the Waters; una Heavy Wings drammatica su accordi echeggianti di chitarra; l’incursione tradizionale di Lucky Duck For Grown Ups, brano per sole voci che gioca con la melodia di Quiet Joys of Brotherhood; la pianistica fragilità di Distant Music. Un disco denso di omaggi e rinvii a un gusto melanconico, probabilmente troppo ombelicale e compiaciuto della propria ricercatezza per molti palati (non escluso il mio, ammetto), ma meritevole di un buon paio di ascolti in condizioni di quiete: potrebbe catturarvi e farvi correre indietro nel tempo. Vi lascio anche i video, aciduli e più interessanti della media.
Un po’ di musica antica con l’ensemble a maggioranza italiana Concerto Scirocco, che per l’etichetta Arcana e con la produzione di Outhere Music ci offre Sirens & Soldiers. Songs without Words from the Italian Seicento. Si tratta di quel che si può desumere dal titlo, ovvero un’antologia di canzoni strumentali del primo barocco, testimoni di un periodo in cui lo strumento acquisiva preminenza sulla voce sulla scorta di esigenze imitative: i brani sono così intesi come “quadri”, ritratti di situazioni, in cui uno strumento principale comunque si sforza di surrogare la voce — a emergere come strumento solista d’elezione è qui il fagotto, suonato da Giulia Genini. Iconico in questo senso l’esordio della brillante La Fontana di Tarquinio Merula (ne allego un’esecuzione dal vivo); nel seguito si alternano italiani e tedeschi, e segnalo la ritmata e trillante sinfonia A gran Battaglia di Marco Uccellini; il bell’intreccio della Canzon à 3 di Francesco Cavalli; la facile e piacevole Fantasia detta “La Portia” del Falconieri; la polifonia da coro trascritto della Monica di Ottavio Bargnani contrastata a quella più veloce e avventurosa del Böddecker; è poi bucolica e ancora cinquecentesca la Sonata quarta sopra l’Aria di Ruggiero di Salomone Rossi. Ottima selezione e ricca di sorprese, eseguita a puntino e meritevole di ulteriori sviluppi.
Un po’ di brani singoli e anticipazioni ora, per non farci mancare niente.
Cominciamo con Mdou Moctar, il rochettaro Tuareg che avevo elogiato di recente a proposito del suo Funeral for Justice (ma c’è altro in serbo…). Ebbene, è stato anche lui ospite di quel dono del cielo che è il Tiny Desk, e ve lo ripropongo volentieri. Il contesto così raccolto mi pareva di ostacolo a una musica così esplosiva, ma il risultato rimane egregio.
Tornano inaspettatamente gli Aerialists di Toronto, il cui prog-folk segnato dall’arpa della frontwoman Màiri Chaimbeul mi aveva piacevolmente sorpreso ai tempi del loro Dear Sienna del '20. Con questa nuova Gammel-Steinomen sembrano prendere una strada un po’ diversa, giocando con uno springleik norvegese che sembra portarli più dalla parte di un folk elettrico vero e proprio. L’impressione generale è di freddezza e non sono persuaso, nondimeno vorrò coprire l’ormai imminente nuovo disco I Lost My Heart On Friday.
Rhiannon Giddens ultimamente va molto sul politico (e non è difficile capire perché), e rilascia cover illustri a ripetizione. Qui una bella How I Long for Peace di Peggy Seeger registrata insieme a Crys Matthews e al Resistance Revival Chorus, per un risultato spiritual ancorché un po’ convenzionale.
Non è però finita, dato che la nostra ha bell’e pronto un disco col Silkroad Ensemble, ufficialmente annunciato: American Railroad esce a metà novembre ed è anticipato da questo interessantissimo medley, Swannanoa Tunnel / Steel-Driving Man, che anticipa il tema del disco: il riconoscimento del tributo di sangue pagato dalla comunità cinese, cui si dovette la costruzione della rete ferroviaria americana, tramite un omaggio musicale. Attendo con trepidazione e qualche piccino timore, ché l’impresa è di quelle delicate.
Dopo un bel pezzo tornano le Pauline en la Playa, il dinamico duo del pop asturiano di cui apprezzo da tanto l’estrosità (anche se, invero, l’ultimo El salto del '19 me lo ricordo moscetto). Yo podría ser John Wayne è un curioso scherzo Western eseguito con la consueta perizia, che fa da preludio a un nuovo disco di cui, per ora, nulla so.
Se vi va un po’ di disco anatolica, gli Altın Gün hanno rilasciato questa nuova Bir sigara iç oğlan — non deflagrante ma dall’ottimo groove, e promettente per il futuro del gruppo, su cui si sono addensate varie nubi.
Aspettiamo presto anche il ritorno di Rosalie Cunningham, di cui vi avevo detto a proposito di quel gran pezzo di disco di Two Piece Puzzle. In The Shade Of The Shadows è un’orgia blues-rock dal suggestivo video fatto letteralmente con uno smartphone sul litorale, variato e latore di albionici ricordi (con un rinvio ai Gong di Daevid Allen, e non è un caso, essendoci il membro Ian East al sassofono). To Shoot Another Day esce a Ognissanti e aiutatemi, sono circondato.
Imminente è anche Son of a Broken Man, il nuovo concept album di Fantastic Negrito sulla sua famiglia di origine e specialmente sulla figura del padre. Questa nuova I Hope Somebody's Loving You è un brano speranzoso, improntato a un sentore di perdono e riconoscimento, e suggerisce un disco più intimistico rispetto a White Jesus Black Problems, ma anche meno ardito. Stiamo a vedere, manca poco.
Ancora il Marais Project col Duo Langborn/Wendel (vi avevo detto del loro Nordic Moods & Baroque Echoes) alle prese stavolta con l’arrangiamento di due tradizionali svedesi, stavolta tratti da Smörgåsbord!, disco del solo Marais Project di una decina di anni fa.
E chiudiamo la rassegna con un po’ di bluegrass, grazie a qualche postaggio estemporaneo di brani dal vivo: dapprima con la scuola europea dei belgi Old Salt, che sembrano ormai definitivamente orfani del violoncellista Toby Kuhn (ve ne avevo parlato agli albori della newsletter, a proposito del loro Live in Room 13). Abbiamo il tradizionale Hang Me seguito da un medley di gusto bulgaro dal titolo Sitting on Top of the World & Plevensko Horo, preludio al nuovo disco Bindle che non so quando esce.
Passiamo poi al bluegrass americano dei grandi Nickel Creek, che si lanciano in una fulminante cover di quel diffusissimo guilty pleasure che è Toxic di Britney Spears (ho perso il conto delle gentildonne e gentiluomini rispettabili che hanno confessato di averne un debole), ulteriore conferma di quella Regola d’Oro del Bluegrass che ormai è dimostrata più e meglio della legge di gravitazione universale — a seguire, nel video successivo, la loro Where the Long Line Leads tratta dall’ottimo Celebrants.
Con questa coda festaiola concludo e vi aspetto alla prossima! — con cui spero di sorprendervi tramite ritorno di una rubrica (wink wink).